Il programma Draghi e il meridionalismo sardo

Com’era prevedibile, il discorso di Draghi ha fornito argomenti di discussione ad una folta schiera di opinionisti, esprimendo un programma (di intenti) per molti versi apprezzabile, ma di difficile applicazione nel contesto politico attuale.

Basti pensare alla reazione della classe politica sarda, che ha chiesto al neo-premier di affrontare il tema dell’insularità “in Costituzione” per rinnovare quella logica assistenziale che ha sin qui distrutto il valore dell’autonomia e la sua capacità di trovare una propria strada allo sviluppo.

Sintomo di uno sbandamento totale nella comprensione delle priorità che invece dovrebbero investire il nostro dibattito politico.

Di Adriano Bomboi.

Partiamo da un fatto alquanto evidente: Mario Draghi non è semplicemente un tecnico, ma anche un abile politico. Un curriculum di alto profilo come il suo, che lo ha portato a mediare tra le istanze economico-finanziarie dei diversi partner UE, l’ha ricondotto a Roma per comporre con successo un governo che passa da ministri del calibro di Daniele Franco all’Economia, sino ad impreparati ministri come Di Maio agli Esteri, quest’ultimo necessario per conservare una solida maggioranza parlamentare, a sua volta puntellata dalla prospettiva dei miliardi europei in arrivo. Ma poco conta, come noto, le redini della politica estera vengono tenute da una pluralità di organismi, che nel mondo contemporaneo partono dall’esecutivo e giungono sino all’ENI, passando per il gruppo Leonardo (ex Finmeccanica), e l’intelligence militare.

Ciò che in questa sede ci interessa veramente riguarda un altro problema: riuscirà Draghi a concretizzare almeno un terzo del suo programma di intenti?
C’è chi vede in lui un leader liberale e liberista, e chi invece vede in lui un leader socialdemocratico. Etichette che lasciamo ai palati fini per concentrarci sugli argomenti. Come Merkel, Draghi infatti pone i giovani al centro della sua agenda: la necessità di accrescere la formazione, ed il multilinguismo, uniti ad un futuro privo di debiti esorbitanti, sono passaggi del suo intervento che il Parlamento avrebbe dovuto sentire almeno venti anni fa. Colmare simili ritardi, con una breve legislatura ed una classe politica incapace, non sarà una passeggiata.
Noi teniamo i piedi per terra e diamo per scontato che non ci riuscirà, ma speriamo che ponga quantomeno le basi per un cambiamento duraturo, capace di proiettarsi oltre il suo incerto futuro politico.
Il vero banco di prova per il nuovo governo sarà rappresentato dal confronto con la vasta pletora di sussidi che animano la vita della Repubblica, dagli ammortizzatori sociali sino all’accanimento terapeutico verso aziende fallimentari, e non a causa del Covid. Ridurre il perimetro dello Stato, questo si, tema liberale, comporterà l’inevitabile battaglia con tutti quei settori della società italiana che godono di consolidati privilegi, e che non hanno alcun interesse a razionalizzare l’impiego della spesa pubblica; settori ben rappresentati in tutto l’arco parlamentare. Difficile dunque pensare che una riforma dell’IRPEF, anch’essa nel programma Draghi, possa costituire la pietra angolare del cambiamento, soprattutto se non accompagnata da una riforma organica della Giustizia e della pubblica amministrazione, la quale, come ci ricorda Luigi Oliveri, alimenta inefficienze e corruzione persino quando cerca di evitare queste ultime.

Il timore dunque è che non si riescano ad affrontare con decisione questi nodi, aggravati dal fatto che il denaro del Recovery europeo potrebbe inasprirne la loro natura, nonostante i vincoli, e la presenza stessa di Draghi, posti a garanzia internazionale del suo “buon” utilizzo. Un timore che si riflette pure nella corretta predisposizione del premier ad accrescere competitività e concorrenza del tessuto imprenditoriale del paese, cui pure un serio federalismo dovrebbe costituire la cornice con cui superare il divario tra il nord e il sud. Perché il premier manifestò chiaro interesse per un regionalismo differenziato in grado di responsabilizzare il ceto politico alle prese coi conti pubblici.

La politica sarda ha compreso tutto ciò?

Ha compreso che i soldi europei non vanno visti come ennesima occasione di sperpero da ricollocare in assistenza e clientele senza futuro?

La spinta verso la cosiddetta “insularità in Costituzione” (inutile strumento con cui rivendicare più soldi pubblici allo Stato) pare interpretare Draghi come uno dei tanti figuranti che si sono succeduti a Palazzo Chigi, e che nulla o quasi cambierà rispetto alle loro aspettative. Né si vede questa legislatura come occasione per implementare la nostra autonomia all’insegna della competitività, per cercare soluzioni a problemi che, al netto di alcune peculiarità tipicamente sarde, ci vedono più vicini al meridione che al settentrione italiano.

Insomma, bene gli applausi dei nostri politici a Draghi, ma adesso bisogna discutere seriamente di scuola, di burocrazia, di fiscalità e di federalismo, non di keynesismo all’Amatriciana, ben oltre gli slogan di circostanza.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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