Da Muroni alle primarie: qual è la situazione dell’indipendentismo?

Intervista ad Adriano Bomboi, fondatore del primo think tank sull’indipendentismo e autore di un libro sulla materia – Di Veronica Matta per Cagliari Globalist.

Parliamo dello stato di salute dell’indipendentismo in Sardegna. Perché ci sono tanti partiti indipendentisti?

Perché il Partito Sardo d’Azione, da cui discende la concezione moderna dell’indipendentismo sardo, si è ritagliato un ruolo meramente elettoralistico. Il sardismo non esiste più al di fuori delle classiche scadenze elettorali, e ciò ha completamente rimosso, anche dai suoi quadri dirigenti ed amministrativi, ogni capacità riformistica. Diciamo che non si è avuto il coraggio di mettere in discussione le leggi elettorali degli ultimi 15 anni.
Questo vuoto viene colmato da varie sigle minoritarie, i cui contenuti esprimono il prodotto di una ideologia di sinistra radicale sorta nell’Italia e nella Sardegna degli anni ’60 e ’70, a stento superata, e che oggi fatica a trovare una concreta dimensione politica. Il fenomeno ha inevitabilmente portato a galla diversi leader, dai programmi più o meno simili, la cui rivalità ha costantemente impedito la realizzazione di qualsiasi progetto degno di fiducia popolare.

Con tutta la buona volontà in tanti non riescono ad immaginare un progetto unitario di Muroni e Maninchedda. C’è ancora chi teme e generalizza la parola “globalizzazione” e chi pensa che il solo settore pubblico sappia stimolare l’impresa e il lavoro di cui i sardi hanno bisogno. Il mondo indipendentista è cosi disperato?

Ha colto due aspetti importanti, sia per analogia che per differenze: con molta ingenuità si continua a ritenere che il settore pubblico possa fungere da arbitro del mercato pianificando, indirizzando e guidando, con fare paternalistico, il mondo delle imprese, considerate alla stregua di minori da prendere per mano (e non adulti da far uscire di casa). Questa logica guida anche un politico professionista come Maninchedda, il cui obiettivo però non pare connesso al fine ma al mezzo, cioè all’incremento di spesa pubblica, col rischio di alimentare opache e già note pratiche assistenzialistiche. Queste pratiche non servono a far uscire la Sardegna dalla crisi, né a gettare le basi di alcuna indipendenza. In ambito economico quindi sia l’indipendentismo che il sardismo si pongono in stretta continuità con l’azione dei partiti italiani, passati e presenti.

Le primarie non sono uno strumento che piace, per alcuni sono perdite di tempo. Ma gli indipendentisti si odiano davvero cosi tanto come si vocifera al punto da evitarle?

Anni fa, ma anche nel mio libro e su Sa Natzione, ho proposto le primarie come strumento di selezione dei candidati indipendentisti, e – attenzione – come strumento con cui conquistare una legittimazione popolare, non autoreferenziale. Oggi diversi leader indipendentisti temono di sottoporsi a questa prova di democrazia diretta perché, con ogni probabilità, farebbe emergere le loro singole incompetenze in materia di riforme istituzionali, di lavoro e di tanti altri temi che interessano ai sardi.
Immaginiamo un modello di primarie dove dei candidati si sfidano in base ad un programma di fronte ad una platea che non sia composta unicamente dai propri affiliati: credo che ne vedremmo delle belle. Penso che a tali condizioni anche il mio piccolo gruppo potrebbe esprimere un candidato.
Su questo punto mi trovo in linea con Vito Biolchini, il quale ritiene che Muroni stia andando incontro agli stessi errori compiuti da “Sardegna Possibile” alle scorse elezioni regionali. Credo infatti che Muroni, se è certo del consenso su cui sta lavorando, non dovrebbe aver timore di certificarlo tramite un mandato popolare. Inoltre darebbe un esempio a tanti finti amici che paiono andargli a traino più per incapacità di contrastarlo che per capacità di esprimere un’alternativa.

C’è un sentimento indipendentista diffuso che non si traduce in un equivalente consenso popolare: perché? E perché gli indipendentisti sono scarsamente rappresentati nelle amministrazioni locali?

L’indipendentismo, per sua stessa natura, rappresenta un’ideologia radicale perché si fonda sul superamento delle attuali istituzioni italiane che sorreggono la Sardegna. A questo aspetto si somma, come abbiamo visto, un insieme di leader, alcuni anche folcloristici, che finiscono per sperperare i buoni contenuti di cui si fanno portatori. Non dimentichiamoci infatti che – al di là dell’ideologia interventista di cui ho fatto menzione – l’indipendentismo rimane l’unico spazio politico che si batte contro l’eccesso di servitù materiali e immateriali che impediscono lo sviluppo della Sardegna: dalla cultura all’economia; dai servizi all’autodeterminazione politica.
Il leaderismo e la frammentazione delle sue sigle ha impedito così anche il lavoro di radicamento nelle amministrazioni locali e la capacità di attirare candidati di spessore distribuiti nel territorio. Abbiamo pertanto un indipendentismo assente dalla società che pretende di rappresentare: conosce poco e male il mondo del lavoro e delle imprese, con cui del resto non ha alcun rapporto di interlocuzione. Né col ceto medio, né con partite IVA e professionisti vari. Non stupisce dunque che i partiti italiani sappiano saccheggiare le astrazioni culturali del patrimonio sardista e indipendentista, ma senza ricollocarle entro una pratica riformista. E del resto non sarebbe nel loro interesse.

A parte gli indipendentisti, chi sono i nemici dell’indipendentismo?

Il maggior nemico non è una persona, un partito o un’istituzione ma un fenomeno economico e culturale: si tratta dell’eccesso di spesa pubblica. In Sardegna crea assistenzialismo e clientelismo, due strumenti di cui si avvalgono i partiti italiani per esercitare il potere, anche a scapito degli indipendentisti. Un potere che poi trova espressione in una serie di politici, più o meno consapevoli del proprio ruolo, i quali non sanno o non hanno sufficiente volontà per affrontare i maggiori problemi dell’isola: la serrata delle imprese, la disoccupazione, la nuova emigrazione, la spoliazione delle risorse del territorio, la distruzione della cultura sarda, anche nelle sue manifestazioni archeologiche, ecc.
Ultimamente ha preso corpo un altro nemico che ha inquinato diverse sigle indipendentiste: è l’ideologia della “decrescita felice”. Questa deriva verso l’ambientalismo radicale impedisce un rilancio dell’edilizia, in particolar modo nel settore turistico e ricettivo (come se tutto il resto equivalga a cementificazioni selvagge); e soprattutto impedisce lo sviluppo delle imprese e di nuovi investimenti (anche nel settore energetico, manifatturiero e agroalimentare). Probabilmente secondo questi indipendentisti sarebbe possibile arrivare all’indipendenza tramite piccole comunità contadine a chilometri zero.
Nel frattempo i sardi attendono proposte più serie.

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