Le ragioni di economisti e intellettuali a sostegno dell’indipendentismo contemporaneo

“Nessun popolo, così come nessun suo gruppo, dovrebbero essere trattenuti a forza, contro la loro stessa volontà, in un contesto politico ed istituzionale che essi non sentono proprio”.

Ludwig Von Mises (Nation, State and Economy, 1881-1973).

La questione Sarda è una questione di metodo, comprendere oggi i ritardi del territorio sulla base degli strumenti contemporanei dell’economia, delle scienze sociali e, più in generale, delle scienze politiche, richiede la necessità di individuare il principale avversario del nostro sviluppo. E per farlo non è necessario elencare la lunga serie di studiosi e pensatori internazionali che nel tempo si sono occupati dei temi dell’autonomia e dell’indipendenza, limitiamoci quindi ad esporne brevemente alcuni, con argomentazioni – non riducibili al solo principio di autodeterminazione – ma contro la natura dello Stato centrale.
Ci sono alcuni quesiti fondamentali da porre: perché l’indipendenza sarebbe utile nel contesto di un mondo globalizzato se l’indipendentismo contemporaneo non è avverso alla diffusione di merci, individui e culture? E quindi che modello di Stato bisogna promuovere in questa realtà? Il sociologo Ulrich Beck ha osservato quanto ormai il cuore dello sviluppo occidentale abbia perso forza rispetto alle nuove economie emergenti, aumentando anche nell’Europa occidentale i fattori di emarginazione sociale e di contrasto all’interno dei singoli Stati (La crisi dell’Europa, 2012). Un processo determinato dal crollo del muro di Berlino nel 1989 e della logica mondiale bipolare e che, fin dal secondo dopoguerra, con la nascita dell’ONU e dei massicci processi di decolonizzazione, ha innescato anche in occidente il progressivo risveglio di tutte quelle sensibilità culturali e territoriali un tempo sopite (Connor, 1994).
Molto semplicemente dunque, secondo Anna Durigon, cofondatrice del movimento Indipendenza Veneta (Sa Natzione, 01-04-13), il diritto all’indipendenza è un diritto che nasce dalla negazione di un altro diritto, come quello al benessere, che, nella fattispecie, lo Stato Italiano non è più in grado di garantire ai suoi stessi cittadini. E per benessere si intende la capacità di esercitare un’altra serie di diritti individuali e collettivi (derivanti appunto dal mutuo accordo contrattuale di quelli individuali), relativi ad una determinata comunità stanziata in un preciso territorio. Di conseguenza, il diritto allo sviluppo economico; il diritto di parlare la propria lingua e il diritto di conoscere e perpetuare la propria cultura in armonia con tutte le altre, divengono imperativi entro i quali non è più possibile sottrarsi dal criticare quelle istituzioni la cui natura provoca evidenti limiti al loro libero esercizio (Ayn Rand, 1963).
Se l’ideologia che stava alla nascita dello Stato italiano e della sua struttura istituzionale era calibrata per creare un ceto burocratico e impiegatizio il cui verticismo avrebbe consolidato l’esistenza di una nazionalità italiana (come ci suggeriva Piero Gobetti fin dal 1922 e come purtroppo si orientò anche la “pedagogia statalista” di Giovanni Gentile), nel 2013, lo Stato, ancora occupato a perseguire questa teologia, continua ad essere l’avversario principale dei ceti più deboli della popolazione, ma anche del ceto medio e del mondo dell’impresa (di cui al massimo si occupa esclusivamente in termini assistenziali) e, alle origini, nel sud, addirittura con una metodica di stampo colonialistico, avversata da eminenti intellettuali quali Gianbattista Tuveri, Carlo Cattaneo e Vincenzo Gioberti. La Sardegna, nonostante le sue avanguardie politiche, ha sempre subito a proprio danno il peso delle forze conservatrici. Ad esempio a fine ’700 la rivoluzione “liberale” di Giovanni Maria Angioy tentò, senza riuscirvi, di eliminare il feudalesimo (il maggiore deterrente al riconoscimento della proprietà privata ed alla nascita di una forte imprenditoria locale), ma passarono ancora più di venti anni prima che il regio editto delle chiudende portasse al superamento di quella fase epocale nella storia economica e sociale dell’isola. Oltre mezzo secolo dopo, e con gli strascichi fiscali e tribali delle chiudende ancora in corso, fu l’intempestivo protezionismo italiano di fine ’800 a tarpare le ali all’iniziativa della nostra timida borghesia locale, e costò alla Sardegna un crollo verticale delle esportazioni nel settore dell’agro-allevamento, passando da un fatturato di circa 55 milioni di lire annuali dell’epoca a meno di 500.000 lire nell’arco di un triennio. La centralizzazione forzata produsse una doppia Italia, priva di convergenza economica (Zitara, 1971) e munita di ampi strati sociali, soprattutto nel mezzogiorno e nel meridione, incapaci di rispondere alle sfide della competitività e dell’innovazione. Uomini e donne privati da uno Stato lontano ma accentratore di quei minimi strumenti culturali indispensabili a mutare in meglio le loro sorti, e che li condussero ad accogliere in pieno metodiche clientelari ed assistenziali ad effimero vantaggio del singolo (il cosiddetto “familismo amorale” introdotto da Banfield), senza poter sviluppare quel minimo capitale sociale indispensabile anche alla regolazione di un trasferimento di competenze dallo Stato centrale agli enti periferici. Non a caso, in termini di sviluppo economico, dal secondo dopoguerra in poi, le Regioni Autonome del nord Italia che non hanno rinunciato alla loro specificità culturale, evitando l’assimilazionismo, hanno risposto meglio rispetto a quelle Regioni Autonome insulari e meridionali che, in sintonia con quelle ordinarie, non hanno fatto valere i presupposti culturali di base che istituivano la loro specificità (Pigliaru, replica su Sa Natzione, 12-11-12). Da parte sua, lo Stato, fin dalle origini del regionalismo, non ha fatto nulla per potenziare una architettura federalista: “La burocrazia statale non vuol capire o finge di non capire il nuovo istituto regionale” disse Luigi Sturzo all’indomani del varo dello statuto autonomo siciliano. Oggi, per quanto riguarda le imprese, la pressione fiscale sui profitti raggiunge addirittura il 68,6%, la media più alta fra i Paesi OCSE (CGIA Mestre, Sa Natzione, 01-11-12). Viviamo in una realtà dove parlare la propria lingua territoriale, o meglio, nazionale, è difficile tanto quanto avviare e tenere una azienda, mentre la pubblica amministrazione, le corporazioni ad essa contigue e le classi dirigenti traggono indiscussi vantaggi da un modello istituzionale rigido e verticistico.
La conseguenza di questo processo ha prodotto inevitabilmente un doppio binario di costi e ritardi: da una parte, il costo di una pubblica amministrazione estesa e farraginosa, nella quale si moltiplica il fenomeno della corruzione, e propensa a mantenere la propria condizione di privilegio (in termini di reddito e previdenza sociale); dall’altra, il costo di un welfare state in crescita esponenziale per garantire un minimo di sussistenza a tutte quelle fasce di popolazione che necessitano a vario titolo di assistenza, imprese e lavoratori inclusi, che a causa dell’eccessiva presenza dello Stato e della sua tirannia fiscale (per usare una definizione cara all’economista Pascal Salin), si trovano a chiudere oppure ad essere ostaggio del clientelismo politico, dal quale traggono minori o maggiori benefici, a seconda della loro vicinanza ai centri amministrativi. Centri di potere che comunque non risolvono i cronici problemi di competitività nel mercato in cui versano. O pensiamo all’esplosione del costo della sanità, la cui disinvolta gestione di appalti, strutture e servizi spesso eccede rispetto a costi che potrebbero essere comunque validi in rapporto alla qualità erogata.
Interessante a questo riguardo osservare l’andamento della spesa pubblica in occidente (ed in particolare in Europa ed in Italia) nel corso del XX° secolo. Tanzi e Schuknecht (2007) hanno mostrato come all’espansione di questa spesa pubblica nel corso dell’ultimo secolo non sia affatto corrisposto un maggior benessere nei confronti della popolazione. Neppure in rapporto all’incremento della tassazione. I cittadini dello Stato, come quello italiano, non hanno beneficiato della pretesa eguaglianza nella redistribuzione della ricchezza, che, al contrario, tramite l’orientamento della mano pubblica ed oltre all’ingente spreco di risorse, è andata solo a beneficio di quei ceti e di quelle corporazioni in grado di esercitare dei privilegi in tal senso, lasciando fuori tutti gli altri, inevitabilmente esposti ad una fiscalità onerosa e dedita a tenere in vita questo parassitismo sociale. La ricchezza dunque si amministra poco e male solo da chi ha conoscenze e da chi amministra direttamente il potere, che genera il deficit, e che a sua volta viene tamponato con manovre di austerity. Uno dei maggiori aspetti critici è che, nel presente, lo Stato, non riuscendo più ad aggredire i redditi (poiché ormai ridotti all’osso), ha incrementato una fiscalità di tipo patrimoniale, puntando così a ridurre lo stock di ricchezza precedentemente e faticosamente accumulato dai risparmiatori. E con le passività accumulate nei decenni antecedenti, nel 1995 l’Italia era già in testa a tutti i maggiori Paesi industrializzati in termini di spesa pubblica dovuta agli interessi dell’amministrazione centrale (l’11,1% del P.I.L. rispetto ad una media del 4% degli altri Stati). Un saccheggio destinato a ridurre ulteriormente il già minor tasso di benessere della popolazione. E se consideriamo i bassi tassi di natalità rispetto alla crescita della popolazione ultrasessantenne, le prospettive sono tutt’altro che rosee. Anche Acemoglu e Robinson hanno fatto notare quanto non sia solo l’ignoranza e l’assenza di strumenti culturali a determinare il malgoverno e la disinvolta gestione della finanza pubblica, ma la consapevole preservazione e la parziale distribuzione del potere stesso (Why nations fail, 2012). Bruno Leoni, citando un esempio di Lawrence Lowell, vedeva in queste maggioranze legittimate dal voto la stessa natura di un gruppo di individui che dietro l’angolo di una strada attendono il malcapitato per sottrargli la borsa. Perché ciò che può essere legittimo per gli interessi di una maggioranza, può non esserlo per una minoranza, e viceversa (La libertà e la legge, 1961). A suo tempo, Frédéric Bastiat non mancava di interrogarsi sulle mistificazioni dello Stato in rapporto alla cattiva redistribuzione della ricchezza: “Come possono accrescersi queste risorse passando nelle mani di un intermediario esoso e parassitario?” (Giustizia e fratellanza, 1848).
L’economista tedesco Hans-Hermann Hoppe, esponente della scuola austriaca fondata dal celebre Carl Menger, e allievo di Murray Rothbard, non esita a definire questo modello statuale come fallimentare, e promuove il diritto all’indipendenza per due ordini di motivi, economici e culturali (Democracy: The God that failed, 2001). Per quanto riguarda l’ambito economico, egli sostiene il diritto alla secessione delle piccole comunità come fattore di espansione della competitività. Gli esempi storici a supporto di questa tesi non mancano: pensiamo al dinamismo espresso dalla “civiltà comunale”, quando il nord Italia vide fiorire una serie di città-Stato le cui potenzialità economiche e la vivacità culturale erano determinate dal compromesso generato dalla competizione fra i poteri laici e religiosi che si contendevano l’amministrazione del potere, introducendo anche il concetto del “mandato a tempo” per favorire il ricambio della classe dirigente locale (concetti analizzati da Harold J. Berman, 1983). O pensiamo alla secessione dei Paesi Bassi meridionali, quando il mercantilismo di origine protestante si oppose alle coercizioni della tassazione e delle imposizioni amministrative sostenute dal ramo iberico della cattolicissima Corona Asburgica; o ancora, pensiamo al potere sviluppato dalla Prussia dei principati prima dell’unificazione tedesca (concetti analizzati da Max Weber nella sua disamina sulle origini del capitalismo moderno, 1904). La ragione è semplice, perché ogni piccola istituzione non ha interesse ad eccedere nel carico fiscale oberante su cittadini e imprese. Sia per favorire l’occupazione, sia per favorire la competitività dell’impresa e sia per evitare una emorragia di forza lavoro e capitali all’estero, perdendo dunque capacità concorrenziali a tutto vantaggio dei vicini (l’Italia e la Sardegna non sono forse oggetto di una nuova drammatica ondata migratoria verso realtà che offrono maggiori opportunità di vita?).
Per quanto riguarda invece l’ambito culturale, Hoppe è più che mai lucidissimo, ed anche in questo caso non mancano gli esempi storici a supporto della sua tesi in favore dell’emancipazione dei popoli: “La secessione incoraggia le diversità etniche, linguistiche, religiose e culturali, mentre nel corso di secoli di centralizzazione sono state soppresse centinaia di diverse culture. Porrà fine all’integrazione forzata determinata dalla centralizzazione e, invece di provocare conflitti sociali e livellamento culturale, promuoverà la pacifica concorrenza cooperativa di diverse culture territorialmente separate […] con crescita economica, prosperità e progresso culturale senza precedenti”.
Si badi bene, i concetti espressi da Hoppe non riguardano un ipotetico futuro, ma sono già in atto, infatti fra le venti maggiori economie del mondo non vi sono unicamente i soliti USA, Giappone, Cina e altri, ma soprattutto Paesi piccoli (Alesina, The size of nations, 2003). Oppure osserviamo il caso delle Province autonome di Trento e Bolzano, che grazie alla specificità culturale come valore aggiunto dello sviluppo economico, godono del reddito pro-capite più alto della Repubblica.

Sfatato dunque il mito della dimensione di uno Stato accentratore come strumento di benessere per la popolazione, nonché la supposta utilità della sua gestione di beni e servizi, occorre riposizionare i termini del dibattito autonomista e indipendentista Sardo in misura tale che tenga conto delle ricette liberali e libertarie come il più credibile strumento per superare la cultura statalista che imprigiona lo sviluppo di un serio tessuto imprenditoriale Sardo, nonché il relativo benessere dei nostri concittadini. Meno tasse, meno burocrazia e dunque meno interventi pubblici su beni e servizi sono lo strumento fondamentale per disinnescare la dipendenza della nostra comunità dall’assistenzialismo e dall’opera di intermediazione politica offerta da classi dirigenti palesemente centraliste e inadeguate a riformare in senso sovranitario le istituzioni regionali. Sul piano pratico pensiamo anche alla collusione politica circa l’inadeguatezza sulla competitività ed alla situazione di oligopolio di realtà aziendali come il petrolchimico SARAS, o dell’ente idrico Abbanoa, o della (ex?) compagnia di navigazione pubblica Tirrenia, ecc. Ciò si pone in naturale controtendenza con le suggestive e spesso poco argomentate teorie di natura socialista e post-marxista che hanno dominato buona parte dell’indipendentismo Sardo nel corso della seconda metà del ’900, e che in parte ancora oggi continuano a rappresentare dei modelli di riferimento (si pensi, fuori contesto, al fascino esercitato dalle “nazionalizzazioni” degli autoritarismi sudamericani di sinistra verso alcune componenti dell’indipendentismo nostrano). Fra queste minoritarie frange indipendentiste vi è addirittura chi accusa lo Stato italiano di “neo-liberismo”, ma uno Stato con una delle più alte pressioni fiscali e burocratiche del pianeta, con una serie di corporazioni che irrigidiscono il mercato del lavoro e delle professioni, con una sequela di conflitti di interessi fra pubblico e privato e con la mancata o parziale liberalizzazione ed esternalizzazione di svariati beni e servizi, non assomiglia piuttosto ad una dittatura statalista dominata da pochi gruppi di potere? Lo Stato-nazione di derivazione ottocentesca, con la sua assolutistica visione della sovranità, è l’indesiderato successore della legittimità divina un tempo associata alla figura del sovrano, e definitivamente superata con l’avvento dell’illuminismo (Lottieri, 2011). Archiviare questa nuova teologia laica e paternalistica significa riaffermare il primato dell’individuo e della collettività sullo Stato (De Benoist, 2005), affinché, come sosteneva anche Margaret Thatcher, lo Stato sia servo dei cittadini e non viceversa (da notare, proprio nell’era Thatcher, oltre al rilancio dell’economia britannica e al di là della guerra fra Londra, l’indipendentismo paramilitare dell’IRA e la nota tragedia di Bobby Sands, furono poste le basi di un dialogo non più armato ma solo politico per la risoluzione della vertenza indipendentista, e che portò agli Accordi del Venerdì Santo).

Uno Stato snello in termini di oppressione fiscale, privo di carrozzoni pubblici spesati dal contribuente e privo di imposizione culturale, dovrebbe essere ridotto al rango di uno Stato minimo – ricordiamoci del pensiero di Robert Nozick –, cioè destinato ad eliminare la sua sfera di influenza sull’individuo, sulla proprietà privata e limitarsi ad arbitrare l’operato del libero mercato. “Molta gente vorrebbe che il governo proteggesse il consumatore. La questione molto più urgente è che il consumatore deve proteggersi dal governo”, così si esprimeva lo statunitense Milton Friedman, Nobel per l’economia nel 1976, e contestato fondatore della scuola monetarista (Capitalism and freedom, 1962). Ma per arrivare ad uno Stato e ad una condizione simile occorre salvaguardare le radici della propria identità, senza sottovalutarle, dalla cui difesa discende anche la legittimità della contestazione a istituzioni inique, perché, come giustamente affermò anche Boris Pahor, “la tragedia delle terre di confine nasce proprio dai silenzi di una memoria troppo indulgente con se stessa”. Concetti irrinunciabili anche per uno dei padri del liberalismo, John Stuart Mill, contro ogni forza tendente ad omologare la ricchezza dell’individuo: “La diversità è sempre altamente auspicabile. L’originalità di ogni uomo va sempre valorizzata e mai annullata” (On liberty, 1859). Analogo orientamento di Isaiah Berlin, nel momento in cui denunciava ogni forma di ingerenza statale a danno della vita del singolo e della sua comunità.
L’identità è dunque lo strumento che consente ad una minoranza priva di orientamento di far valere i propri diritti e di poterli rivendicare laddove lo Stato di appartenenza non voglia o non sia più in grado di garantirli.

Sarà il nostro punto di (ri)partenza per la riscrittura dello Statuto Autonomo Sardo, perché, per dirla alla Popper, auspichiamo più riforme e meno sedicenti “rivoluzioni”.

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos

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    8 Commenti

    • [...] Trovarsi quindi degli analfabeti di fronte al pc di qualche sportello pubblico mentre i giovani laureati emigrano è assolutamente “normale”. Sono i paradossi delle comunità schiavizzate dall’economia assistenziale, quella drogata dal politicantismo statalista in fascia tricolore, dove persino il doppio stipendio, nel momento in cui è spesato dai contribuenti, diventa fattore di emarginazione e contrasto sociale a carico delle fasce più disagiate della popolazione, che a quanto pare non sono solo quelle munite di ammortizzazioni sociali. In questi termini persino il consenso politico che inizialmente i cittadini avrebbero potuto conferire al pubblico reimpiego dei disoccupati si trasforma in un sentimento di segno opposto. E qui mi tornano in mente le parole di mio padre ogni qualvolta racconta la sua esperienza di emigrazione in Germania come dipendente della Opel, la nota casa automobilistica partecipata dall’americana General Motors. Ebbene, nonostante in Germania non fossero presenti confederazioni sindacali forti come quelle italiane, la Opel aveva una propria concezione del welfare basata sull’equità sociale. E quando eventualmente doveva licenziare degli operai, come avvenne anche con la crisi petrolifera dei Paesi OPEC a seguito della guerra del Kippur negli anni ’70, l’ufficio delle assunzioni poneva all’operaio due quesiti fondamentali: “Lei ha una famiglia da mantenere? In casa ci sono altri redditi oltre al suo?” Se emergevano altri redditi, per quanto minimi, il dipendente veniva licenziato, gli si attribuiva un premio ed i relativi contributi previdenziali maturati sino a quel momento. Chi invece rischiava la fame ed aveva la minima competenza necessaria per proseguire il lavoro rimaneva in testa alla graduatoria, e quasi sempre, al suo posto di lavoro. Nell’Italia del clientelismo invece piove sempre sul bagnato, perché le istituzioni premiano prima di tutto i suoi “adepti”, lasciando fuori tutti gli altri, su cui però gravano collettivamente i costi. E’ la “socializzazione” del privilegio. Un problema segnalato anche dai più recenti studi statistici ed economici sull’evoluzione della spesa pubblica nel bel Paese (sul tema, vedere l’articolo: “Le ragioni di economisti e intellettuali a sostegno dell’indipendentismo contemporaneo”). [...]

    • Ottimo

    • Purtroppo spesso si crede che all’individualità bisogna contrapporre l’uguaglianza ma realizzando l’omologazione; il problema è secondo me l’ignoranza condita con una formazione da realiti. Uno non vale uno se non si hanno competenze, conoscenze e abilità da poter vantare e offrire

    • Complimenti per l’articolo!

    • [...] subire solo quella dello Stato-nazione, dobbiamo capire che abbiamo bisogno di scrivercela da soli, in base alle nostre esigenze. Ovviamente la 752/76 non è la normativa migliore del mondo (ad esempio l’idioma ladino [...]

    • [...] ad una delle ragioni fondanti con cui abbiamo inquadrato la natura dello Stato-nazione italiano (Sa Natzione, 01-05-13), munito di strutture centralistiche, con un’ampia e farraginosa pletora burocratica ed [...]

    • [...] pervenuti. Il vantaggio ottenuto si trasforma presto così in una nuova occasione per sviluppare ulteriore assistenzialismo, come nelle Canarie, con costi sociali e di investimento superiori ai potenziali benefici, [...]

    • [...] Sul tema: “Le ragioni di economisti e intellettuali a sostegno dell’indipendentismo contemporaneo” (Sa Natzione, [...]

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