Zone franche inutili? Spiegatelo al gigante asiatico della globalizzazione, e non solo

Se avete dubbi sulle zone franche, la prima cosa che dovete fare è controllare il posto in cui siete seduti, e persino il vostro abbigliamento: perché il mouse del vostro computer, di qualsiasi marca sia, è passato per una zona franca cinese, e magari, in una delle centinaia di navi cargo che 24 ore su 24 solcano i mari dell’Asia verso occidente, dentro a qualche container, ha viaggiato persino la lampada che ogni sera illumina le vostre letture. Forse ha fatto scalo presso la zona franca di Singapore, o degli Emirati, importante raccordo fra mercati, dove la ZF di Ras Al-Khaimah nel primo semestre del 2010 ha totalizzato ben 875 nuove registrazioni d’impresa, con oltre 106 nazionalità rappresentate. Ma non c’è bisogno di ragionarci tanto, le vostre stesse mutande non arrivano sicuramente dall’estinto settore tessile isolano. Difficile infatti credere che tutti i capi del vostro vestiario siano stati pagati al prestigioso Made in Italy. Se c’è un epoca che gli storici ricorderanno come la più prolifica in campo economico per l’istituzione della zona franca, questa è certamente il presente, a partire dall’istituzione del W.T.O., l’Organizzazione Mondiale del Commercio, la quale ha incrementato la richiesta di questa tipologia di zone economiche munite di vantaggi spalmati su vari livelli e su varie tipologie di presenza nei mercati: import (poco), export (tanto), nonché produzione, consumo, logistica, trasformazione, amministrazione e tanto altro. E così, mentre svariati governi occidentali, in particolare europei, proseguono imperterriti ad occuparsi di teoria da moltiplicatore keynesiano (senza peraltro valutarlo con cognizione di causa), la pratica vede ingenti capitali spostarsi nel globo al seguito di multinazionali e persino di aziende di modeste dimensioni, ma il cui numero diluito su vari distretti industriali dell’Asia contribuisce a dargli solidità nella capacità di penetrazione di mercati più ostili all’assorbimento dei loro prodotti, ma che in realtà rappresentano quelli principali. Un esempio a caso? L’Europa. A differenza del terzo mondo e di altri Paesi in via di sviluppo, il vecchio continente ha – legittimamente – ritenuto di mettere al riparo i propri consumatori da prodotti non sempre in linea con i minimi standard di sicurezza oggi prefissati, ciò nonostante, vi basti entrare in un qualsiasi negozio cinese del vostro paese e troverete una vasta gamma di prodotti contraffatti, o comunque non a norma con i suddetti standard. Infatti, pensare di poter chiudere con un dito la diga del mercato nero internazionale, sarebbe come voler credere agli asini che volano. Esistono interi distretti produttivi che si occupano esclusivamente di questi prodotti.

Shangai, Shenzhen (ex villaggio di indigenti oggi ricolmo di grattacieli) a nord di Hong Kong, Ningbo e Taiwan sono solo alcune delle più celebri zone franche del mondo. Ma non è tutto, la varietà di ZF, zone economiche speciali e comunque a fiscalità di vantaggio e di deregulation burocratica, nelle sue varie forme, sono anche il campo di battaglia in cui il colosso cinese si appresta a giocare la sua complessa partita per la convertibilità commerciale internazionale dello Yuan, la valuta del dragone. Il timore di Pechino è politico: con la consapevolezza della diversa identità politica di Hong-Kong (ex colonia britannica da tempo aperta al libero commercio) e di Taiwan (l’isola a vocazione indipendentista più potente dell’area), il regime “comunista” teme di restare indietro a queste due realtà nella battaglia per i traffici globali dominati dalle zone franche e tenta di portarsi avanti attraverso un programma di espansione finanziaria (Reuters, 05-06-13). La Cina è consapevole di essere una tigre di carta rispetto al dinamismo delle due “regioni autonome” e non potrà permettersi alcun ritardo di competitività, pena la sopravvivenza stessa del suo modello politico. Proprio questi giorni la stampa finanziaria internazionale ha accreditato il distretto di Pudong come trampolino di lancio dell’iniziativa, nella già esistente free trade zone di Waigaoqiao (a Shangai, la prima che venne realizzata in Cina). Alcuni analisti ritengono che la nuova area di libero scambio, costituita grazie alla preesistente zona franca, nei prossimi 10 anni stimolerà comunque importanti riforme politiche e sociali. Con oltre 9mila imprese allocate, il volume del traffico nella sola area di Shangai è stato stimato nel 2012 attorno ai 100 miliardi di dollari statunitensi, una cifra netta che non lascia spazio a interpretazioni pessimistiche sull’utilità di ridurre il peso dello Stato a favore delle imprese.

Nel 2010, il magazine FDi, prodotto dal Financial Times, a cui collaborano vari economisti ed analisti, ha stilato la classifica delle più promettenti zone franche globali del futuro, fra le 25 migliori ben 5 sono europee, prevalentemente nei Paesi dell’est, mentre nel Mediterraneo occidentale ne compare solo una, quella del Marocco (ottavo posto per Tangeri, Global Outlook). Quella di Cagliari non c’è, e sapete perché? Perché esiste solo sulla carta, ed una politica locale che non comprende le dinamiche di analisi dell’alta finanza non può pretendere riconoscimenti di qualcosa che non è mai stato avviato e dunque non può essere valutato, né può rientrare nei piani di investimento di una qualsiasi multinazionale. Inoltre, a dispetto delle critiche a quella irlandese di Shannon, l’area continua a rimanere in classifica per quanto riguarda il ranking delle infrastrutture e dei servizi (e su questo tema parleremo a breve). Mentre negli USA non è quella della California a rappresentare le maggiori scommesse (di cui aveva parlato l’economista Sardo Razzu presso il quotidiano La Nuova del 28-06-13), ma quella del South Carolina.

Fra le più potenti del continente americano vi è indubbiamente quella di Colon, a Panama, che funge da raccordo fra le Americhe, i Caraibi, l’oceano Atlantico ed il Pacifico. In molte aree del pianeta i multilateral free agreements hanno inoltre consentito di superare le storiche barriere che i singoli Stati avevano apposto, dando così ulteriore spinta alla validità di territori caratterizzati da facilitazioni operative a favore delle aziende.

Insomma, dire che le zone franche nel mondo siano al capolinea non ci pare proprio corretto, al contrario, si apprestano ad estenderne i caratteri, con traffici sempre più spietati in termini di concorrenza. La loro stessa esistenza ha modellato il nostro stile di vita dell’ultimo decennio, sebbene le sue basi si collochino maggiormente indietro nel tempo.

Opportuna una riflessione finale: perché molte zone franche occidentali ottengono risultati inferiori alle attese? Forse perché la manodopera dei Paesi in via di sviluppo non gode di diritti e costa meno? E’ una causa. O forse perché determinati porti si trovano in una favorevole posizione geografica nel crocevia dei traffici? E’ un’altra causa. Ma ci sono fattori indipendenti da questi motivi che rallentano maggiori performances delle ZF, ad esempio, europee? Certamente. I motivi? Motivi che esulano dall’istituto della zona franca in se, di qualsiasi tipologia essa sia, e sono i fattori che attingono non solo alle capacità infrastrutturali di un territorio, ma anche alle infrastrutture immateriali ed alla rigidità del mercato locale. Inutile fare zone franche in territori muniti di basso capitale umano. Abbiamo Stati che non investono in infrastrutture, Stati che non investono in formazione (e che addirittura alimentano la dispersione scolastica), e Stati che fingono di liberalizzare il mercato. L’assenza di questi presupposti per il progresso produce cittadini che non sono in grado di valorizzare una fiscalità di vantaggio, e che la subiscono in qualità di passivi comprimari piuttosto che in qualità di imprenditori capaci di inserirsi nel quadro dei nuovi capitali pervenuti. Il vantaggio ottenuto si trasforma presto così in una nuova occasione per sviluppare ulteriore assistenzialismo, come nelle Canarie, con costi sociali e di investimento superiori ai potenziali benefici, invalidando la riuscita di questo strumento destinato allo sviluppo.
Per quanto riguarda le istituzioni europee, dovremmo domandarci se il modello attualmente vigente rispecchia le nostre effettive esigenze territoriali.

Adriano Bomboi.

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