La lingua sarda sulla via del tramonto

Appunti per il nuovo assessore regionale alla cultura sul contesto in cui si è adagiata la politica linguistica sarda: un fenomeno di balcanizzazione della lingua come strumento di annullamento dell’idioma nazionale, riducendo il problema ad un bancomat assistenziale. E come se la lingua sarda fosse in contrapposizione allo studio delle lingue straniere.

Di Giuseppe Corongiu.

La politica linguistica della “movida”, che ha preso il posto del vecchio movimento storico, ha il pregio di essere comunicativa e di concentrarsi molto sulle parlate della capitale che un tempo venivano considerate spurie e poco eleganti. Certo, bisogna decidersi se il cagliaritano, oggi chiamato campidanese, aspira a essere base di una lingua seria o è solo uno slang deritualizzante con accenti localistici, ma non comunitari sardi.

Insomma, esistono i numeri e la capacità di usare i mezzi di comunicazione, ma manca l’eleganza, la sobrietà, la capacità della lingua di andare nel profondo delle questioni attraverso una sintassi sorvegliata e un lessico senza riserve territoriali. Ci sono molti che chiacchierano, ma mancano quelli bravi. A scrivere, soprattutto. Sembra che, esaurita la polemica contro una lingua standard basata sulla tradizione letteraria centro-settentrionale, non ci siano altri argomenti degni di nota sullo scacchiere mondiale. Anche il vecchio logudorese-nuorese sembra essersi prestato al gioco eclettico delle varianti.

Il ceto politico de “su Cabu de Susu” e del Nuorese non ha capito in tempo che la lotta contro la LSC (Limba Sarda Comuna/Standard) non era altro che un ennesimo episodio di cagliaricentrismo e un riequilibrio di chi conta veramente al Nord, cioè accademici turritani e operatori galluresi. Per il resto l’uso linguistico tende al basso grazie a editori pubblici e privati, università e politica. Si traduce stancamente in un vernacolo individuale ciò che la cultura dominante ha già espresso in italiano, senza nessuna prospettiva o visione che leghi una lingua differente a una visione politica e culturale diversa come sarebbe piaciuto a Simon, a Lilliu o a Lussu. Senza novità espresse in sardo.

Manca la lingua nazionale, sovrabbonda il dialetto simpatico che non disturba il potere regionale impegnato su temi “veri” come la sanità, i trasporti, il PNRR o i rapporti con Roma e Bruxelles. Il sardo non può occuparsi di temi veri regionali o globali se si assevera che un abitante di Luras è straniero rispetto ad uno di Teulada. Si balcanizza, per sottrazione e spesso per contrapposizione. Gli antropologi e i poeti sostenitori dei mille linguaggi del villaggio, sono stati i corifei della nuova assimilazione. Si accetta la divisione come fatto storico e l’unità come portato esogeno.

Lingua si, ma che sia divisa in cantoni (neppure “istituzionalizzati”), leggera, simpatica, anche poco sarda, magari anche italianizzata perché si capisce e si controlla meglio. Che sia dialetto, insomma. A ciascuno il suo, come nelle tribú primordiali, senza tante masturbazioni mentali su lingue minoritarie, comunitarie o nazionali. Senza orizzonte se non il cachet o il colore folk. Con il discorso autodeterminativo che la gente non capisce più senza lingua e storia comune. Ma capisce che pure la questione della lingua è dentro il sistema del bancomat assistenziale.

Non manca il grottesco esempio degli intellettuali che hanno ostacolato l’unificazione e che usano l’italiano come lingua comune nelle loro opere importanti tradendo se stessi. Perché lo slang simpatico crea consenso immediato, ma non consesso duraturo.

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Redazione SANATZIONE.EU

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