Autonomia differenziata e dintorni

L’autonomia “differenziata” sottrarrà risorse ad altre Regioni? Il DDL Calderoli spaccherà il paese o svilupperà una seria architettura federale?

Nei giorni scorsi, intervenuto su SardiniaPost, l’ex presidente della Regione Pietro Soddu ha affermato che il varo di nuovi poteri a vantaggio delle Regioni del nord potrebbe provocare un ammanco di finanziamenti alle altre, tra cui la Sardegna, come nel settore della sanità. Opinione condivisa da vari altri commentatori.

Ma è vero?

E in base a quali dati o elementi giuridici viene fatta una simile affermazione?

Per capirlo è intanto opportuno leggere sia il DDL Calderoli, approvato dal CdM qualche settimana fa, sia conoscere l’impianto giuridico che determina i trasferimenti tra Stato e Regione.

Partiamo da quest’ultimo aspetto, ad esempio nel settore della sanità. Da chi è finanziata?

In Sardegna la materia è normata dall’art. 1, comma 836, della legge 296/2006, inerente la finanziaria 2007, che costituì il caposaldo dell’intesa Stato-Regione sviluppata all’epoca dalla Giunta Soru.

A partire da quell’anno infatti, in base a tale accordo, la Sardegna paga interamente da sola la propria sanità (per un volume che ha ormai raggiunto i circa 4 miliardi di euro l’anno per ogni finanziaria regionale).

Questo semplice dato di fatto ci suggerisce che il varo di un’autonomia differenziata non provocherà alcun mutamento nel capitolo di spesa relativo ai servizi destinati alla salute, perché non rientra tra le materie che oggi vengono finanziate in loco dallo Stato (a differenza di altre Regioni del mezzogiorno italiano, pienamente sussidiate dallo Stato centrale, che potrebbero avere legittimi timori al riguardo).

Chi sostiene questa tesi dovrebbe pertanto argomentare per quali ragioni la nostra isola si troverebbe nella stessa situazione di altre, ma il nostro sospetto è che chi protesta abbia intrapreso la battaglia per puro antagonismo ideologico e politico, senza conoscere le differenze insite nella struttura giuridica del regionalismo italiano.

E questo, purtuttavia, non cambia il problema, altri osservatori potrebbero replicare che la Sardegna perderebbe comunque un certo volume di trasferimenti in altri settori: nell’isola il capitolo più consistente riguarda i trasferimenti pensionistici.

Eppure, anche in questo caso non si intravedono valide ragioni giuridiche, per un motivo alquanto semplice: eccetto le spese di welfare in capo alla Regione e i servizi degli enti locali, le prestazioni previdenziali vengono erogate direttamente dallo Stato centrale senza l’intermediazione regionale. Traduzione ulteriore: il denaro che arriva materialmente al cittadino passa direttamente dallo Stato (tramite l’INPS) verso il soggetto beneficiario, e non tramite la Regione.

Chi parla di flessione delle prestazioni pensionistiche, in modo approssimato, non sa che, tecnicamente, si tratta di una spesa inerente il solo Stato centrale che non ha niente a che vedere con i trasferimenti statali deputati al funzionamento dei servizi locali. Dico questo perché alcuni critici trattano in modo approssimativo i differenti capitoli di spesa individuando nella sola Regione il recettore ultimo del passaggio di risorse. Bisogna pertanto intendersi sulla natura dei trasferimenti, che in senso lato riguardano anche altri enti, imprese e cittadini, rispetto a quelli inerenti la sola Regione, che a sua volta può avere competenze di spesa diverse da altre Regioni a statuto ordinario e statuto speciale.
Alcuni “giuristi” improvvisati parlano di “Sardegna” confondendola con l’istituto regionale da cui è amministrata.

Traduciamo ulteriormente questo passaggio: laddove dovessero esserci tagli, questi non riguarderebbero il volume delle pensioni citate, ma, ad esempio, la riduzione degli uffici pubblici dislocati nel nostro territorio.

A questo punto, individuata dunque la possibile natura dei tagli che potrebbero derivare da un ammanco di risorse al territorio, bisogna leggere al riguardo il DDL Calderoli, per comprendere se tale sospetto sia fondato o meno.

Il cuore (“finanziario”) del DDL, relativamente al tema della perequazione di risorse tra Regioni, si trova agli articoli 3, 4 e 9.

Ma è opportuno leggere il primo comma dell’art. 4, che recita:

«Il trasferimento delle funzioni, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, concernenti materie o ambiti di materie riferibili ai LEP di cui all’articolo 3, può essere effettuato, secondo le modalità e le procedure di quantificazione individuate dalle singole intese, soltanto dopo la determinazione dei medesimi LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard. Qualora dalla determinazione dei LEP di cui al primo periodo derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, si potrà procedere al trasferimento delle funzioni solo successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie coerenti con gli obiettivi programmati di finanza pubblica.»

Che cosa significa?

Intanto, che cosa sono i LEP? Sono i livelli essenziali di prestazione che devono essere garantiti dallo Stato. Quel livello minimo di servizi che Roma deve garantire a tutti i cittadini, indistintamente dalla residenza e a prescindere dalla quantità delle nuove funzioni che le Regioni del nord intenderanno ottenere.

Ebbene, questo comma afferma molto chiaramente che le Regioni settentrionali non otterranno nuove funzioni se lo Stato fosse obbligato a dover reperire più fondi del previsto per coprire un ammanco di soldi in altre Regioni dal residuo fiscale negativo. Il trasferimento di funzioni sarà possibile solo nel momento in cui verranno stanziate le somme ritenute idonee a coprire le spese del fabbisogno di tutti i cittadini, stabilite in base a criteri standard d’intesa tra Stato e Regioni. E non prima.

Questo preciso comma, notate bene, rappresenta anche il cuore politico della riforma, e la sua vera “identità”.

Qual è il “messaggio politico” di questo comma?

In primis che non c’è alcun rischio di “spaccatura del paese” (come viene sostenuto, tramite alcuni risibili slogan, da commentatori riconducibili alla sinistra italiana), né un impianto giuridico che porta ad un taglio di risorse delle Regioni svantaggiate. Ma in secondo luogo non c’è purtroppo neppure un serio avanzamento verso una riforma federale dell’Italia (a differenza di quanto invece sostenuto da esponenti della destra italiana).

L’impressione è che ci si trovi di fronte all’ennesima “riformicchia all’italiana”, che non muta sostanzialmente la natura del regionalismo italiano, attuando blandamente l’art. 116 della Costituzione in materia di sviluppo delle funzioni regionali, salvo poi lasciare immutato il problema generale sollevato da decenni dall’elettorato nordista: i soldi.

Perché ruota tutto attorno a questo problema. Da un lato, da tempo immemore le Regioni del nord (come Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) si sono rivolte a partiti come la Lega nel tentativo di evitare l’eccessivo invio dei propri soldi verso altre Regioni, considerate, legittimamente, come sperperatrici di risorse altrui. Ossia Regioni meridionali tendenti a conservare un’economia disagiata e assistenziale col solo fine di drenare ricchezza al nord per preservare un ceto politico mediocre, abituato ad evitare la responsabilità di varare autentiche riforme destinate a far crescere la ricchezza locale. Dall’altro lato, abbiamo la Lega e in generale il centrodestra, ipotecato da Silvio Berlusconi, che non ha mai realizzato concrete riforme per assecondare tale esigenza.
Una versione in scala minore di questo problema si rinviene pure nel Partito Sardo d’Azione, da sempre eletto con alterne fortune con il programma di realizzare riforme per una crescita dei poteri autonomistici (o addirittura verso l’indipendenza dell’isola), salvo poi non effettuare alcuna riforma nel momento in cui viene eletto. Perpetuando assistenzialismo, blande o inutili riforme (come “l’insularità in Costituzione”), e ordinaria amministrazione.

Ecco, il DDL Calderoli pare inserirsi in questo filone di pseudo-riforme. Forse destinato a tenere vivo il consenso dell’elettorato nordista che da tempo ripone le sue speranze di cambiamento nella Lega al governo. E utile anche per dare una spinta propagandistica nel corso delle recenti elezioni regionali, che hanno visto la conferma del centrodestra alla guida della Regione Lombardia.

Perché non si vedono infatti significativi cambiamenti in questo progetto di riforma?

Perché è del tutto evidente che nel momento in cui verranno definiti i “costi standard” dei LEP, si arriverà ai medesimi volumi di spesa erogati nei servizi correnti, o a nuovo debito pubblico, per cui appare inverosimile un trasferimento di funzioni al nord tale da rendere possibile un ingente ammanco di risorse per altre Regioni.
A meno che la Lombardia e altre non si riservino proposte in grado di ridurre i costi di alcune funzioni oggi assegnate allo Stato, ma data l’inconsistenza culturale del ceto politico attuale, appare un’ipotesi abbastanza remota.

Eppure, badate bene, tutto ciò non è necessariamente positivo.

Il problema posto da una parte dell’elettorato nordista è legittimo e merita attenzione.
Finché non verrà ridotto il flusso di denaro che oggi alimenta l’irresponsabilità di una vasta fetta della politica meridionale, non ci sarà alcuno sviluppo autonomo delle Regioni (speciali e non) dal residuo fiscale negativo. E men che meno serie possibilità per discutere “spaccature”, “indipendenze” o comunque il tentativo di realizzare un paese federale fondato sulla responsabilità nella gestione dei conti pubblici, o sull’impegno verso difficili ma necessarie riforme da portare avanti.

In conclusione, è moralmente inaccettabile chi alimenta lo spauracchio della “spaccatura del paese”, col fine di continuare a ricevere soldi altrui senza lavorare per maturarne di propri. Ma è anche intellettualmente disonesto chi afferma che questa riforma porterà ad un’Italia federale. L’eventuale successo di questo DDL potrebbe tuttavia tenere aperto un dibattito sul federalismo, in un’Italia ancora ferma ad un modello obsoleto e centralistico di amministrazione del territorio, che sigilla l’incapacità di crescere delle Regioni culturalmente ed economicamente più disagiate.

Tutto il resto si valuterà con i successivi passi che la maggioranza al governo intenderà adottare.

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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    3 Commenti

    • Questo articolo espone un modo rigoroso e puntuale la situazione di fatto e rappresenta integralmente il mio punto di vista. Grazie anche perché un lavoro di questo livello comporta una cosa che in pochi fanno: studio, molto studio….

    • …rileggo oggi questo tuo utile sunto …che oggi sabato vado a Terralba che ci sono PUBUSA VILLONE e amici Anpi …poi scrivo

    • L’Autonomia (in)differenziata e l’assurdità del Comitato Cassese.

      Abbiamo ormai capito tutti, almeno chi aveva intenzione di farlo, che non ci sarà mai alcuna “autonomia differenziata” nei termini in cui è stata concepita dal DDL Calderoli.

      In primis perché l’articolo 4 del DDL vieta alle regioni del nord di trattenersi i propri soldi a scapito di altre (a differenza dei pappagalli che continuano a ripetere il contrario, paventando immaginarie secessioni).
      E questo ci fa intuire che qualsiasi ipotetico trasferimento di funzioni dallo Stato a tali regioni produrrebbe inevitabilmente una crescita del debito pubblico (per compensare l’eventuale ammanco di denaro alle regioni, speciali e non, dal residuo fiscale negativo).

      E infine, vero ostacolo alla riforma, perché nel momento in cui dovranno essere definiti i LEP, ossia i livelli minimi essenziali di prestazione che lo Stato deve comunque garantire a tutte le regioni, ci si arenerà, come al solito, per l’individuazione dei famosi “costi standard” a cui i medesimi LEP dovranno essere agganciati.

      Ed è a questo punto che noi amanti del federalismo notiamo un altro limite della proposta Calderoli.

      Quale?

      Come segnalato anche da Alfonso Kratter, si è presentata un’anomalia tipica del sistema Italia: per definire i LEP è stato nominato un comitato di esperti presieduto da Sabino Cassese.

      E in cosa si caratterizza questo comitato?

      Che è composto quasi esclusivamente, non da economisti, come ci si dovrebbe aspettare, ma da giuristi.

      Che competenze hanno dei giuristi per definire il volume dei LEP?

      Mistero.

      Ecco, se qualcuno avesse intenzione di produrre qualche critica costruttiva seria a Calderoli, al posto di salivare su inesistenti “secessioni dei ricchi”, questo è un argomento.

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