Italia e Sardegna tra analfabetismo economico e diritto allo studio

Secondo un recente studio di Standard & Poor’s solo il 37% degli italiani possiede un’alfabetizzazione economica, peggio del Kenya. Una situazione che ha pesanti riflessi nella performance economica e persino nella scarsa qualità dei nostri politici.
Esiste una correlazione con l’analfabetismo funzionale di cui tanto si parla? Se si, non dipende certamente dal volume dei fondi destinati alla formazione ma, come mostrano i dati, dalla qualità della stessa.

E i sardi?

Emblematica la penuria di laureati in discipline tecnico-scientifiche, e la perdurante assenza della storia e della lingua sarde dall’intero percorso formativo.

Sviluppiamo un ragionamento e vediamo le tre domande su cui riflettere – Di Adriano Bomboi.

Un recente studio di Standard & Poor’s ha evidenziato che solo il 37% degli adulti italiani possiede un’alfabetizzazione economica, sotto il Kenya (38%) e sopra l’Azerbaijan (36%).
Ai primi posti tutto il mondo anglosassone e l’Europa settentrionale: Danimarca al 71%, Canada al 68%, Regno Unito al 67%, Australia al 64% e USA/Svizzera al 57%. Tra i G7 l’Italia è ultima.

Lo studio, patrocinato dalla George Washington University, ha preso in esame dei concetti finanziari di base, tra cui la divesificazione del rischio e l’inflazione.

Il nostro ritardo apre diversi filoni di problematiche, sia economiche che culturali.

Ad esempio, una scarsa conoscenza delle informazioni relative al funzionamento dei mercati impedisce, come ovvio, una valorizzazione della performance dei nostri esigui operatori economici.

E non va meglio neppure sul piano politico, dove in modo del tutto trasversale, da destra a sinistra, si affermano una serie di politici dediti a gestire in maniera irresponsabile i conti pubblici e ad alterare negativamente la performance degli operatori suddetti. Politici propensi ad accusare a posteriori l’Unione Europea, la Germania o i mercati in generale, di sedicenti complotti che avrebbero causato i danni che invece, per buona parte, hanno origine nella loro ignoranza.

Basti pensare che in Italia c’è chi crede che la fragilità del sistema bancario nostrano sia prevalentemente connessa a speculazioni internazionali e non ad insipienza gestionale, oltre che clientelismo politico. Come se il “Banco di Lutturai” abbia in pancia la stessa esposizione di Lehman Brothers (senza considerare che sul piano globale la prossima crisi potrebbe derivare dalla montagna di liquidità immessa dall’interventismo pubblico nel sistema bancario durante gli ultimi anni).
Oppure c’è chi ritiene che l’Italia sia penalizzata da una sedicente ondata di austerity “imposta dall’Europa” (quando in realtà la spesa pubblica, assistenza inclusa, e il debito pubblico, non sono affatto calati). Si tratta degli stessi che ignorano come la BCE, grazie al quantitative easing, mese per mese, stia generando uno scudo di miliardi di euro a garanzia del fragile sistema-Italia (che probabilmente cesserà in coincidenza con la fine del mandato di Draghi a Francoforte).

Ma di fronte alla diffusa incompetenza economica si può esporre una domanda: c’è una correlazione con l’analfabetismo funzionale di cui tanto si parla?

La risposta potrebbe non essere scontata. Come ha osservato l’economista Massimo Fontana, una ricerca del 2016 (Di Francesco, Amendola e Mineo), mostra che un’alta percentuale di analfabeti funzionali italiani possiede una laurea.

L’incompetenza non deriva quindi esclusivamente da un problema di scolarizzazione ma dalla natura e dalla qualità della scolarizzazione.

La vulgata intellettuale, a sua volta afflitta dagli stessi problemi che pretende di analizzare, tende erroneamente ad associare il problema non solo ad una bassa scolarizzazione, ma pure, notate bene, ad uno “scarso investimento statale” nell’istruzione. Anche stavolta le narrazioni si schiantano nel muro dei dati: recenti rilevazioni OCSE mostrano che l’Italia spende il 4% del PIL in formazione, non molto ma neppure poco, si spende più dell’Irlanda.

Ma l’Irlanda ha un tasso di analfabetismo funzionale tra i più bassi d’Europa (appena il 17% contro il 28% dell’Italia). Nelle isole però, Sardegna inclusa, al 13,6%. Un dato tutto sommato confortante rispetto ad altre aree della penisola, ma che non trova riscontro, e che necessiterebbe di un ulteriore studio, nel tasso di alfabetizzazione economica.

Analogo trend sul piano statale: in Irlanda l’alfabetizzazione economica raggiunge il 55%, contro il suddetto 37% dell’Italia.

Mistero sull’isola, sappiamo tuttavia che le università sarde hanno prodotto un discreto club di “neo-keynesiani”, che ben si sposa alla maldestra gestione della spesa pubblica da parte dei nostri amministratori. Basti pensare ai numerosi provvedimenti assistenziali e sussidiari della Giunta di Francesco Pigliaru (economista dell’Università di Cagliari) nei settori dei lavori pubblici, delle aree industriali, e dell’agroallevamento.

L’intera storia dell’Autonomia regionale è un susseguirsi di pianificazioni calate dall’alto: dalla grande industria, inquinante e fuori mercato, sino al piano paesaggistico, che ha distrutto l’intera edilizia e la crescita del settore turistico nelle aree rimaste prive di strutture ricettive.

Evidenziamo quindi la situazione: in Sardegna la dilagante ignoranza economica e culturale non deriva tanto da un problema di accesso allo studio, né, principalmente, dai fondi ad esso destinati, ma dalla qualità e dalla natura degli insegnamenti impartiti ai nostri studenti (pensiamo addirittura alla totale ignoranza nella conoscenza della storia e della geografia sarda, emblema del centralismo ministeriale da cui viene composta la didattica regionale, od alla scarsità di laureati in discipline tecnico-scientifiche).

Lo studioso Roberto Bolognesi suggerisce che tra le varie cause che invece attengono alla bassa scolarizzazione sarda (con una dispersione scolastica che porta un ragazzo su quattro ad abbandonare senza un diploma) vi sia persino l’assenza della lingua sarda, dovuta all’assimilazionismo linguistico italiano. In quest’ambito appare del tutto evidente il dislivello tra il volume di fondi regionali destinato all’istruzione nel suo complesso, e quello, di gran lunga più esiguo, destinato all’introduzione della lingua sarda.

Ecco tre domande su cui dovremmo concentrarci:

1) i sardi riescono ad accedere agli studi? (Ossia, i fondi sono realmente insufficienti? Se si, in quale segmento formativo?);

2) cosa studiano i sardi? (Ossia, gli insegnamenti impartiti dalla scuola pubblica, e quelli scelti dallo studente nei gradi superiori, sono compatibili con le caratteristiche socio-economiche del territorio?);

3) come studiano i sardi? (Ossia, l’assenza del plurilinguismo è una delle varie cause che concorrono alla dispersione scolastica? Osserviamo la percentuale di sardofoni che riscontrano difficoltà).

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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