Referendum costituzionale: poche ragioni per votare si, tante per il no

Referendum costituzionale: pochi motivi per votare “si” e tanti per scegliere il “no” rispetto ad una riforma che non affronta i reali problemi del Paese. Vediamo gli argomenti essenziali per condurci, il prossimo 4 dicembre, ad una scelta ragionata, non urlata e consapevole contro uno Stato che potrebbe danneggiare ulteriormente l’economia e la cultura del nostro territorio. Da un debole Senato alla riforma del Titolo V°.
Ma in Sardegna quanti hanno risposto alla riforma renziana con un progetto di revisione dello Statuto speciale o con la creazione di un Parlamento autonomo sardo? – Di Adriano Bomboi.

Considerata l’ampiezza delle implicazioni giurisprudenziali, economiche e sociali che comporterebbe l’analisi di una riforma costituzionale, in questa sede non sarà possibile affrontarne un’esaustiva osservazione. Ci concentreremo in breve su alcuni aspetti essenziali della proposta renziana (ecco il testo, ed ecco una tabella comparativa recante le modifiche agli articoli).

Sapete, nel 1853 uno dei maggiori intellettuali del secolo si rese conto che tra i problemi delle nuove democrazie emergenti vi era quello di confidare troppo sulla produzione di nuove leggi come strumento per risolvere qualsiasi problema economico o sociale del popolo. Herbert Spencer denunciò la “metafisica dello Stato”, sottolineando un principio di stretta attualità: le leggi, e le riforme, possono produrre effetti negativi rispetto alle intenzioni iniziali del legislatore. E ciò accade perché governi e parlamenti non possono prevedere o pianificare tutte le conseguenze derivanti dalle loro scelte, credere l’opposto equivale ad una fede religiosa. Ad esempio, si scoprì che troppi sussidi non risolvono il problema della povertà ma lo espandono.
Ricordiamoci inoltre che l’esistenza stessa di una Costituzione non è la necessaria garanzia di un popolo. Il Regno Unito infatti non dispone di una vera e propria Costituzione scritta.

Dunque, quali potrebbero essere le ricadute negative della riforma costituzionale?

L’iniziativa include elementi interessanti, tra cui il superamento del bicameralismo paritario (art. 57), la chiusura delle Province (art. 114) e del CNEL (art. 99). Positiva in particolare la riduzione a soli 100 senatori della seconda Camera per ridurre parte dei costi di gestione. Bisogna tuttavia riconoscere che, a differenza dei presunti 500 milioni di euro di risparmio annunciati dall’esecutivo, uno studio della Ragioneria di Stato ne ha quantificati solo 57,7 milioni (il 9% rispetto alle spese 2015). I più grandi sperperi della Repubblica infatti non derivano tanto dagli organi di rappresentanza (che pure abusano del denaro dei contribuenti), ma dalle azioni del Governo, dalle amministrazioni centrali e da quelle periferiche. In altri termini, come ha recentemente riconosciuto anche il Financial Times, l’Italia non sta affrontando le reali riforme che potrebbero risolvere i suoi problemi, cioè l’eccesso del debito pubblico (2.252,2 miliardi di euro), per cui sarebbe necessario iniziare a tagliare seriamente la spesa (stimata in circa 800 miliardi). Non servono più leggi ma buone leggi, perché dietro la retorica dell’efficienza sbandierata da Renzi abbiamo in realtà un governo che rincorre Bruxelles per fare il contrario, accusando di eccessi solo Regioni e Province. Comprensibile quindi anche la posizione di chi sceglierà di astenersi dal voto, poiché su questi aspetti la situazione rimarrebbe pressoché identica.

Il fronte dei “si” presenta altre deboli argomentazioni, ad esempio si paragona impropriamente il Senato renziano al Bundesrat tedesco, con la differenza che quest’ultimo offre al Bundestag (la Camera alta del Parlamento tedesco) pareri vincolanti su diverse materie, con potere di veto sospensivo, tra cui quelle finanziarie. In Italia ciò non sarebbe possibile, ed è sufficiente solo questo elemento a squalificare l’idea che si stia costruendo un Senato “più rappresentativo delle autonomie locali”.
I pareri dei senatori sardi ad esempio non sarebbero vincolanti, ed anche più ininfluenti del contesto attuale (vedere i nuovi articoli 70 e 71). I lettori più esperti avranno compreso che se la “vertenza entrate” sulla battaglia fiscale tra Stato e Regione è rimasta irrisolta per oltre dieci anni, non esistono speranze per ritenere che col nuovo Senato problemi simili verrebbero risolti più rapidamente. E francamente, affidarsi alla sola “buona volontà” di un governo non può essere considerata una formula di garanzia costituzionale.
Un’altra differenza è che nel Bundesrat tedesco i Lander esprimono un numero di parlamentari connesso al loro peso demografico; in Italia, al contrario, alle Regioni ne spetterebbe una quota fissa (questo tuttavia non è un indicatore di minore o maggiore efficienza legislativa). Debole invece l’argomentazione dei “no” sul fatto che tale Senato sarebbe composto da nominati al posto degli eletti. In realtà, in Europa occidentale solo la Spagna ha una seconda Camera a prevalenza elettiva; altri 7 Paesi non hanno una seconda Camera, mentre in altri 7 (come in Germania) tale assemblea viene composta da nominati delle autonomie territoriali. Ciò ovviamente non ha creato alcuna “dittatura” degli esecutivi in carica.

Discutibili o velleitari altri passaggi della riforma costituzionale: pensiamo all’innalzamento a 150.000 firme per la presentazione di progetti di iniziativa popolare (un limite alla democrazia diretta, a favore dei partiti). O pensiamo all’aumentato quorum per l’elezione del Capo dello Stato: se consideriamo che un Paese come la Svizzera non possiede neppure questa figura istituzionale (ma solo un debole presidente della Confederazione), viene da domandarsi se anche in Italia abbia ancora senso custodire un ruolo in passato appartenuto alla monarchia, ed oggi, oltre che costoso, prevalentemente simbolico.
Impropri anche i paragoni col modello francese.

Eppure, oltre ai magri poteri del Senato, i rischi maggiori della riforma derivano dalle pesanti modifiche al Titolo V° con l’ulteriore centralizzazione dello Stato. Mentre mezza Europa presenta vari modelli di federalismo, l’Italia compie il processo inverso, nell’ingenua e dannosa idea che accentrare la guida dello Stato consenta di ridurre tempi e sprechi sparsi tra le sue istituzioni, ottenendo “più efficienza”.
In primo luogo bisogna ricordare che la governabilità non è determinata solo dalla natura delle istituzioni ma anche dalla legge elettorale (che non è oggetto del referendum), dunque l’eventuale immobilismo di un governo o la maggiore e minore velocità di legiferare non ha solamente causali tecniche ma politiche. Inoltre la condotta del governo, come sul citato problema del debito pubblico, dimostra che Roma non avrebbe un approccio diverso rispetto al presente. In secondo luogo bisogna considerare i due fattori di limitazione del già esiguo decentramento amministrativo: 1) la clausola di supremazia nazionale; 2) la cancellazione delle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni, che passano a Roma (novellato art. 117). Tra queste ultime troviamo energia e turismo.

Lo stravolgimento dell’art. 117 sterilizza il debole regionalismo attuale lasciando alle sole Regioni autonome il compito di bilanciare lo strapotere dello Stato (che sinora in Sardegna si è già distinto per un’ampia gamma di danni e sperequazioni su diverse materie, dai trasporti alle servitù militari, dal fisco all’agricoltura, dalla burocrazia, passando per le infrastrutture, sino alla cultura). Votare “si” significa consegnare l’amministrazione del nostro futuro ad un centro di potere tradizionalmente lontano, indifferente ed a tratti ostile, anche con la complicità di tanti sardi, agli interessi dell’isola.
I fautori del “si” rigettano tale prospettiva in considerazione della “clausola di salvaguardia” delle Regioni autonome (sostenuta dai trentini). Tale clausola preserverebbe i poteri degli Statuti speciali cancellando le materie di competenza concorrente solo per le Regioni ordinarie. In realtà, il novellato art. 117, con la clausola di supremazia dell’interesse “nazionale” consentirebbe allo Stato di aggirare le Regioni autonome ogni qualvolta a Roma lo ritenessero opportuno, in quanto valida indistintamente per tutte le Regioni (rendendo dunque inoffensiva la precedente “clausola di salvaguardia”, poiché nella scala gerarchica delle fonti la Costituzione precede le leggi di determinazione delle specialità territoriali). Si tratta di un passaggio chiaramente controverso, passibile di dibattito tra giuristi e costituzionalisti. Al popolo spetta la responsabilità di non rischiare con il proprio futuro, evitando di votare “si”.
La recente visita cagliaritana del Ministro Franceschini ha poi mostrato che il suo sostegno al “si” consentirebbe pure alle Regioni autonome di vedersi sottrarre competenze in materia turistica e culturale. Dopotutto, in Sardegna le difficoltà di Ryanair e l’oligopolio a vantaggio del gruppo Moby-Tirrenia esprimono tutto il potenziale dei danni già sopportati dall’isola a causa del governo italiano e dei suoi emissari locali.

Un aspetto curioso è rappresentato dal fatto che, in qualsiasi caso, in Senato si avrebbero parlamentari muniti di argomenti, per quanto effimeri, derivanti dal potere conferito dagli Statuti speciali, mentre le Regioni ordinarie accrescerebbero il loro dislivello rispetto a quelle autonome. Insomma, chi pensa sia necessario superare la riforma del 2001 per risolvere i conflitti di competenze sorti tra Stato e Regioni, potrebbe trovarsi di fronte ad una nuova serie di conflitti, non meno importanti di quelli già sperimentati. E soprattutto, bisogna ricordare ai fautori del “si” che la riforma non avrebbe bisogno di superare tali vecchi conflitti perché sono stati già ampiamente trattati dalle sentenze della Corte Costituzionale (spesso a svantaggio delle Regioni).

In conclusione, la riforma non presenta fondamentali fattori di innovazione per risolvere i principali problemi del Paese. E per stare sul solco del dilemma spenceriano, denota persino concreti fattori di rischio per gli interessi economici, sociali e culturali della nostra comunità. Tali per cui, come abbiamo visto, sarebbe preferibile votare “no”.
Ma attenzione: questo “no” non ha l’obiettivo di conservare la sedicente “Costituzione più bella del mondo”, una delle più arretrate e illiberali dell’occidente, come provano tutti i limiti patiti dalla Sardegna.
Il democratico cammino per la libertà prosegue. Una seria riforma dovrebbe contemplare la disarticolazione dello Stato centrale con un vero federalismo fiscale, culturale ed amministrativo delle Regioni, se non la loro piena indipendenza. Perché solo dalle sovranità fiscali e culturali derivano le responsabilità nella gestione dei propri conti pubblici, senza le avventure assistenziali e clientelari che oggi, ma anche domani, hanno l’unico scopo di assicurare il consenso elettorale ad un ceto di inconcludenti politici professionisti, mentre l’economia finisce nel baratro. Infatti il problema fondamentale dell’Italia è l’assenza di competitività, con Regioni in cui il tessuto produttivo è incapace di produrre nuova ricchezza.

Sfortunatamente i sardi non dispongono di una truppa politica sull’esempio di quelle scozzesi e catalane, che ai tentativi di centralizzazione delle istituzioni hanno risposto con l’accrescimento dei poteri dei propri Parlamenti.
In Sardegna nessuno ha reagito all’inutile riforma renziana con la proposta di trasformare il Consiglio regionale in un Parlamento autonomo sardo. Pensiamo all’inconsistenza programmatica dell’indipendentismo. E men che meno tramite il progetto di riformare i poteri del nostro Statuto autonomo.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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