Interessi strategici? Fra Egitto e Corsica. Per una politica estera della Sardegna

“E’ vergognoso per occuparsi delle cose altrui ignorare le proprie”.

Democrito, 460-360 A.C.

Da quando esiste U.R.N. Sardinnya, è nostra abitudine pubblicare online almeno un articolo al mese relativo agli affari esteri. Questa linea si è imposta per due esigenze fondamentali: la prima, per contribuire ad un indipendentismo non isolazionista e perfettamente integrato nella conoscenza e nelle dinamiche del contesto internazionale; la seconda, per offrire spunti di ragionamento al mondo indipendentista che potessero rappresentare l’embrione di una politica estera, libera da interpretazioni ideologiche semplicistiche in rapporto agli interessi economici dell’isola. Fra i vari interventi, l’osservazione dell’intervento francese in Mali, con una nota sull’Europa (Sa Natzione, 01-02-13); la questione libica nel Mediterraneo e le sue ricadute nel sistema Sardegna (Sa Natzione, 01-03-11 & Odissey Dawn, 23-03-11), ma anche l’interrogativo sul futuro federale della stessa Unione Europea (Sa Natzione, 01-06-13). L’equilibrio e l’esperienza (dovuta anche alla presenza nel nostro gruppo di militari) ci ha sicuramente consentito l’opportunità di poter leggere la realtà geopolitica nel modo più efficace possibile, e con contenuti che non hanno nulla da invidiare in termini di serietà rispetto a quelli diffusi dalla stampa ufficiale. Ma non basta.

Secondo il dettato costituzionale, lo Stato ha la competenza esclusiva in materia di politica estera. A differenza, ad esempio, dei Cantoni svizzeri, la Regione Sardegna non può proiettare direttamente la sua sovranità nel quadro dei rapporti internazionali per poter tutelare i propri interessi. Di conseguenza la direzione di questa politica praticamente non esiste, e viene dissolta nelle singole iniziative promozionali degli assessorati e/o della presidenza, oltre che dei comuni rapporti amministrativi con l’Europa, da cui tuttavia siamo separati nella rappresentatività politica, non avendo un collegio unico UE. E con candidati politici, come Francesca Barracciu, rispettabili ma non idonei a ricoprire tale ruolo. Ad esempio sulla politica industriale la candidata del PD nel suo profilo Facebook ha affermato di voler sollecitare lo Stato a riprendere in mano il settore (e quindi la Sardegna rimarrebbe spettatrice passiva di scelte che invece andrebbero decise in loco e non a Roma). In Catalogna lo Statuto Autonomo definisce persino la separazione dei brevetti industriali territoriali da quelli iberici ed internazionali. In questo quadro di subordinazione, offerto da una classe politica incapace di leggere i motivi del gap della Sardegna rispetto ad altre regioni europee, non stupisce che nessuno abbia mai pensato alla creazione di un ente per la promozione del territorio, in una parola, di un Istituto per gli Affari Esteri (IPEC), deputato a pubblicizzare le nostre produzioni (ad esempio nell’ottica di attirare investimenti esteri, come scritto anche da Andrea Nonne), omogeneizzando una gestione assessoriale farraginosa ed estemporanea, ma capace anche di veicolare contributi culturali come base per il dialogo politico. Il messaggio che deve passare è che l’Italia non è unita sotto alla stessa bandiera ma è formata da territori e popolazioni autonome munite di specifici interessi, e di produzioni/paesaggi di qualità.
In questi termini, un IPEC, oltre a sviluppare un dialogo bilaterale con altre realtà internazionali, potrebbe uniformare un brand unico per l’isola distinto dal Made in Italy (vedere anche “Riflessioni di politica commerciale”, Sa Natzione, 17-11-10). Bisognerebbe inoltre rivedere i criteri di finanziamento ai numerosi circoli dell’emigrazione all’estero, che dovrebbero sviluppare sinergici criteri di intervento, piuttosto che dilapidare il poco denaro disponibile in iniziative talvolta inutili e inopportune (Sa Natzione, 08-12-12). Mentre sul piano dei Trasporti della Sardegna con l’esterno registriamo che finalmente la politica identitaria abbandona l’ottica di mettere mano ai soldi dei contribuenti e si apre agli investimenti privati. Ad esempio Paolo Maninchedda del “partito dei Sardi”, dopo aver sostenuto la “Flotta Sarda” di Cappellacci, ha manifestato interesse per l’iniziativa di “Go in Sardinia” nell’ambito della navigazione, con considerazioni che abbiamo già espresso lo scorso primo giugno, quando nessuno, neppure i sardisti, avrebbero scommesso un centesimo sulla riuscita dei privati (“Flotta Sarda? Go in Sardinia! Finalmente arrivano i privati, ma chi li supporta?”). Un ente per i rapporti economici internazionali potrebbe sviluppare un dialogo per invitare all’investimento nel territorio diversi vettori aerei, sul modello dell’offerta all-inclusive, in sinergia con il settore ricettivo.
Ma un IPEC, preferibilmente introdotto in una riforma del nostro Statuto Autonomo, potrebbe divulgare il patrimonio letterario della Sardegna nel mondo, facendo conoscere gli autori meno noti all’estero, e stimolando maggiormente i rapporti fra le minoranze linguistiche. Potrebbe accrescere l’interesse, i documentari e gli studi attorno al nostro patrimonio archeologico. Potrebbe stimolare il settore dell’istruzione e della ricerca, coordinando le attività fra l’accademia Sarda e quelle internazionali, se avessimo una politica disposta ad investire in formazione (ma notiamo positivamente che il “partito dei Sardi” si è aperto anche all’idea di una Agenzia per il plurilinguismo). Immaginiamo quindi una evoluzione in senso nazionale della gamma di interessi rispetto all’attuale “Sardegna promozione”. In passato proponemmo addirittura di convertire il poligono militare di Quirra in un polo universitario aperto alla ricerca internazionale (Sa Natzione, 01-11-11). Recentemente anche il direttore dell’Unione Sarda si è mostrato interessato al tema di una formazione di eccellenza. Il giornalista Vito Biolchini invece si è lamentato del silenzio dei politici Sardi alle parole del Ministro della Difesa Mauro, il quale, in relazione alle primavere arabe, ha paventato un incremento delle attività militari nella nostra isola, proprio come quelle di Quirra. Ma è proprio sulla Difesa che dovrebbe fondarsi la base di una nostra concezione autonoma della politica estera e che si pone oltre il raggio d’azione di un semplice ente per gli Affari Esteri. C’è il tema della Brigata Sassari, e più in generale dei militari Sardi, il cui numero all’interno delle forze armate ci rende una popolazione fondamentale per l’esistenza stessa della Difesa italiana. Questo è un elemento basilare di cui l’indipendentismo non ha mai tenuto conto. Il know-how militare maturato dai Sardi nelle operazioni di un Paese membro del G8 come l’Italia è di pari livello, se non superiore, al personale militare di svariate e minori repubbliche indipendenti.  Se venisse riconosciuto il nostro status di minoranza linguistica e soprattutto nazionale, non ritenete che la nostra partecipazione (che diventerebbe di tipo federale) alla Difesa assumerebbe una connotazione politica maggiormente rilevante in termini di benefici che lo Stato dovrebbe riconoscere? La prospettiva aprirebbe complesse esigenze di riforma costituzionale.

Partiamo da un concetto fondamentale con cui dovremmo sviluppare tale politica: è sbagliato pensare che gli interessi geostrategici dell’Italia coincidano con quelli della Sardegna. Il Ministro Mauro, nell’esaltare il ruolo delle nostre servitù militari, le ha poste in relazione alla crisi nello scenario mediterraneo ed agli interessi vitali dell’Italia, fra cui quelli energetici e la disponibilità di una piattaforma NATO a cavallo di Europa, nord Africa e Medio Oriente. Tuttavia gli interessi italiani non coincidono propriamente con quelli della Sardegna, per due ordini di motivi, interni e geopolitici. I motivi interni riguardano ovviamente il peso che la Sardegna paga a causa dell’eccesso di servitù militari, anche in relazione alla tutela ambientale e della salute che lo Stato compromette, senza bonificare e senza versare all’isola i guadagni derivanti dalle attività di sperimentazione. Significa che un Sardo sacrifica mediamente allo Stato più di quanto riceva in cambio dallo stesso. I motivi economici e geopolitici sono più complessi. Se ad esempio l’Italia si occupa anche di tutelare il posizionamento internazionale di gruppi parastatali come l’ENI, possiamo affermare che l’ENI faccia gli interessi della Sardegna? Le azioni di lobbyng a danno dell’isola suggeriscono il contrario. Mentre sul piano degli investimenti privati (aziende Sarde incluse), bisogna aggiungere che Roma, nonostante il suo ruolo, non è incisiva nella difesa del settore privato nei Paesi oggetto di crisi, in quanto il suo peso nella politica internazionale è relativamente contenuto. L’Italia si trova poi suo malgrado impegnata nel prevenire eventuali ondate migratorie e potenziali minacce alla sicurezza interna ed Europea (assieme a vari Paesi UE e NATO), ma queste minacce riguardano anche la Sardegna? No se per la sicurezza la Sardegna non fungesse da portaerei continentale senza ottenerne adeguata contropartita economica, si se la Sardegna continuerà a farsi utilizzare senza lavorare politicamente al ridimensionamento delle sue servitù militari (e ad un futuro in cui potremmo trattare in prima persona con l’Alleanza Atlantica circa i termini di un accordo e l’eventuale ubicazione delle installazioni militari). Per quanto riguarda invece le ondate migratorie abbiamo un problema inferiore a quello paventato dall’Italia, e inferiore a quello della Repubblica di Malta e della piccola isola di Lampedusa nei pressi della Sicilia. Ciò è determinato da un duplice aspetto. Il primo è che i tentativi di sbarco (anche se già avvenuti, ma non frequenti in Sardegna) sono influenzati dalla distanza geografica che separa la partenza dall’approdo finale, in questo senso Malta e Lampedusa sono propaggini che in caso di difficoltà delle imbarcazioni vengono scelte come meta obbligata rispetto alla Sardegna. Il secondo aspetto, non secondario, riguarda il flusso migratorio (prevalentemente orientato verso Francia ed Europa centrale, mentre l’Italia si configura come Paese di transito). Generalmente il flusso non tende ad introdursi nel territorio di uno Stato se non può proseguire via terra il suo percorso. La Sardegna è un isola, di conseguenza la necessità del doppio imbarco per raggiungere mete continentali la rende poco appetibile per l’organizzazione delle mafie del mare e, come detto poc’anzi, a differenza di Malta e Lampedusa, non rappresentiamo neppure una postazione idonea per i numerosi sbarchi di emergenza. I rischi esistono certamente, ma l’Italia ha tutto l’interesse ad accrescerne il potenziale a causa del beneficio strategico di cui gode in Sardegna, con la complice e opportunistica indifferenza dei suoi alleati. Di fronte ad una ipotetica Sardegna sovrana, anche UE e NATO, non solo l’Italia, avrebbero bisogno della collaborazione di Cagliari per preservare i confini e la stabilità dell’Europa meridionale. Ma questa collaborazione non potrebbe mai tradursi nell’abuso attuale operato dall’dall’Italia, e bisognerebbe avere pure il coraggio di sfatare il mito di una politica estera unitaria europea, che di fronte ai legittimi particolarismi delle sue nazioni non potrà mai esistere.

Teoricamente dovremmo avere più timore dei traffici da Corsica e penisola italiana che non da Egitto, Libia, o persino Siria, etc.

L’Egitto è uno dei Paesi chiave negli equilibri del mondo arabo, del nord Africa e del Medio Oriente nei suoi rapporti con l’occidente. Dopo la caduta di Mubarak, le forze armate, unica entità concreta nella preservazione del potere del Paese, hanno riottosamente guidato l’Egitto alle elezioni, che hanno premiato la Fratellanza Musulmana guidata da Morsi. La gestione di Morsi ha deluso le aspettative, perché non ha avviato le riforme richieste dalla popolazione, adottando invece riforme per accrescere l’autorità dell’esecutivo. Queste scelte politiche hanno diviso i sostenitori di Morsi, perché l’ala più radicale ha continuato a sostenere il leader musulmano, mentre l’ala moderata che aveva sostenuto la sua presidenza si è unita alle proteste dell’opposizione. La situazione di stallo politico e di crescente instabilità sociale ha indotto l’esercito a riprendere il controllo della scena politica, destituendo Morsi. Tuttavia, l’esercito, consapevole della sua forza interna e del suo ruolo geopolitico nella regione, ha colto l’occasione per perpetuare il proprio potere ed attaccare le aree politiche ostili alla sua egemonia: da un lato ha perseguito l’area democratica di El Baradei (costretto a riparare all’estero), mentre dall’altro lato ha innescato una repressione armata contro l’ala radicale della Fratellanza Musulmana. Ciò che emerge poco nei media occidentali è che l’esercito gode di consenso presso quegli strati della popolazione egiziana avversi al radicalismo musulmano. In questi termini non esiste alcun popolo compatto contro un esercito che, in realtà, agisce per volontà propria e non sotto un presunto comando occidentale. I vertici delle forze armate egiziane contano sull’appoggio internazionale (perché nonostante le parole di Obama, l’alleato USA non rinuncerà ai suoi avamposti nella regione e non avverserà il generale al-Sisi), mentre vari Paesi del Golfo hanno interesse ad evitare la nascita di una grande democrazia in seno all’Egitto (fattore che destabilizzerebbe il potere di varie monarchie del Medio Oriente). Contemporaneamente, fra cui Israele, c’è interesse a circoscrivere l’azione e l’influenza di aree radicali avverse, fra cui quella esercitata per lungo tempo al governo dell’Iran nell’area (mentre questi rischia la perdita del suo principale alleato, la Siria). Il rischio quindi è quello classico dell’instabilità permanente, con forze internazionali che finanziano il terrorismo, e forze internazionali che finanziano le forze armate deputate a contrastare tale terrorismo, mentre la fascia più giovane della popolazione si candida alle prossime ondate migratorie verso l’Europa. In questo momento dunque le logiche del dialogo e della democrazia dovrebbero imporsi sulle logiche che fino ad oggi hanno impedito la stabilità del mondo arabo. L’unico elemento serio con cui al momento potremmo immaginare un maggior impegno occidentale in Egitto sarebbe il rischio di blocco del Canale di Suez, l’arteria economica più importante del mondo. Ma al Cairo conoscono i propri limiti.

La Corsica è un caso completamente diverso, ma non per questo meno pericoloso in relazione ai traffici di armi e sostanze stupefacenti. E’ difficile ammetterlo, ma Ajaccio si sta seriamente trasformando nell’hub delle organizzazioni criminali europee. Mentre la Francia accusa il nazionalismo Corso di aver sostenuto il fenomeno in chiave antifrancese, alcuni settori del nazionalismo Corso imbracciano nuovamente le armi e accusano invece proprio la Francia per il problema della criminalità (vedere il comunicato inviato dal nuovo Fronte Corso di Liberazione Nazionale all’emittente France 3). E’ verosimile una partecipazione dell’intelligence francese nella generale situazione di instabilità che si è venuta a creare, ma proprio il nuovo ricorso alle armi dei Corsi ci appare inopportuno, perché fornisce direttamente a Parigi il pretesto di intervenire, dissolvendo nella repressione anche il nuovo clima di concordanza politica che si era venuto a formare fra le varie forze consiliari dell’Autonomia Corsa, che di recente ha varato un documento unitario di riconoscimento ufficiale della lingua autoctona. Un IPEC Sardo, oltre a promuovere un sano interscambio economico fra Sardegna e Corsica, avrebbe potuto avviare un dialogo bilaterale con gli amici Corsi sulla necessità di proseguire la battaglia per la sovranità entro un percorso democratico, isolando le componenti radicali che sempre più seducono tanti cittadini in buona fede sulla “opportunità” di una soluzione armata contro lo stato di crisi.

Di Roberto Melis & Adriano Bomboi.

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    2 Commenti

    • [...] militare destinato a riformare il settore in base ai nostri interessi strategici (vedere anche Sa Natzione, 01-09-13). Si stima che oltre 5.000 Sardi siano parte dell’Esercito Italiano. Fra basi e personale la [...]

    • Condivisibile in toto, finalmente qualcuno che cerca di analizzare le questioni con un ottica geopolitica.

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