Ma quale Europa vogliamo?

Ci scrive un amico dall’estero, emigrato per lavoro, afferma che sarebbe tornato volentieri in Sardegna se la situazione economica lo avesse consentito, ma, tutto sommato, si dice soddisfatto di non versare le tasse ad uno Stato esoso che tiene in vita dei parassiti politici che non risolvono i problemi (e cita una serie di noti politici Sardi di destra e sinistra che omettiamo di riportare). Certo, dice che non bisogna generalizzare, ma poi chiede a noi teorici indipendentisti quale Europa vorremmo costruire per ridurre il divario economico che separa la Sardegna dai Paesi più avanzati del vecchio continente. Come immaginiamo il futuro?

Premesso che in Sardegna di “teorici indipendentisti” non se ne vedono dai tempi di Antonio Simon-Mossa, abbiamo davanti una domanda alquanto complessa. Senza voler dare credito a quanti parlano di complottismi “massonico-bancari” dell’Europa, sicuramente per rispondere possiamo partire da ciò che non vogliamo: una Europa tecnocratica, lontana dal consenso popolare e dal riconoscimento delle minoranze nazionali. Non vogliamo una Europa fiscale, che condizioni la tassazione della nostra comunità e persino il nostro livello di produzione di beni e servizi (vi pare normale che a migliaia di chilometri da casa nostra si decida la quota latte che un nostro imprenditore dovrebbe mettere sul mercato?). E’ ridicolo sottostare ad un totalitarismo burocratico che si arroga il diritto di decidere quanto latte può erogare la mammella di una mucca. Perché le uniche leggi a cui vorremmo sottostare sarebbero quelle della libera concorrenza. Non vogliamo dunque che Bruxelles metta il naso in tutti i nostri affari creando lacci e laccioli che frenano le nostre potenzialità di sviluppo, e bisognerebbe lasciare alle singole comunità la piena potestà legislativa. Piuttosto, l’Unione Europea che vorremmo costruire dovrebbe al massimo certificare la qualità delle produzioni, magari occuparsi della pace e della sicurezza fra i Paesi membri; potrebbe rinegoziare la sua politica monetaria e limitando quindi il suo carattere di sovranazionalità tendente a sottrarre ai singoli Stati membri quote di sovranità (col senno di poi, anche l’equidistanza della Gran Bretagna dall’Europa unita sta mostrando tutta la sua validità). Non si tratta quindi di voler costituire una sola entità politica fra le nazioni (percorso a cui sarebbe approdato il pensiero di Altiero Spinelli), ma piuttosto una realtà policentrica, in cui il potere viene equamente ripartito fra comunità che consensualmente scegliessero di far parte di una tale struttura pattizia (non esattamente un federalismo alla Robert Schuman o alla Jean Monnet), ci riferiamo ad una “elvetizzazione” dell’Europa, come ci ha ricordato Carlo Lottieri, e come ben descritto dall’area libertarian della scuola austriaca. L’economista tedesco Hans-Hermann Hoppe nel corso dei suoi studi ha sapientemente prospettato una Europa di piccole patrie, non grandi al punto da invadere i vicini, e neppure bisognose di elevare la tassazione a cittadini e imprese per coprire imponenti debiti pubblici determinati da estesi ingranaggi burocratici e ambiziosi sistemi di welfare, tipici dei maggiori Stati-nazione. Oggi abbiamo un pachiderma europeo che impone austerity a Stati-nazione che, a loro volta, al posto di far fare una cura dimagrante al settore pubblico, la impongono a quello privato, già sfiancato dall’ingombrante presenza dello Stato. La Svizzera – che già a fine ’800 entrò nei favori di un intellettuale Sardo come Giovanni Battista Tuveri – è dunque il maggior esempio pratico che abbiamo per opporci al nuovo Leviatano continentale, e rappresenta un multiculturalismo ed un dinamismo economico pienamente inserito nel più ampio fenomeno della globalizzazione (non scordiamoci che oggi fra le venti maggiori economie mondiali vi sono anche Paesi piccoli). In Italia furono personalità come Gianfranco Miglio a rendersi conto per prime che l’idea di una Europa unita stava stravolgendo le stesse fondamenta con cui si pretendeva di fondarla, basate sul reciproco e pacifico interscambio di scienza, merci, lettere e arti. Perché tutto lo sbandierato “in varietate concordia” (il motto europeo) si stava risolvendo unicamente a sfavore delle piccole sensibilità territoriali. E nonostante ciò, fino a poco tempo fa, persino liberali come Ralf Dahrendorf continuavano a confondere il valore del regionalismo con l’egoismo. Come se il diritto all’esistenza delle piccole comunità fosse unicamente motivato da visioni romantiche e non anche etiche ed utilitaristiche. Su scala statale il problema è ben presente anche nella nostra Repubblica, se ad esempio si parla dei problemi dell’Alcoa regionale per Roma pare quasi un “affare localistico”, mentre se si parla dell’Ilva di Taranto si tratta di un “problema nazionale”, e dunque “meritevole” di maggiori attenzioni rispetto alla “periferia”. Oggi sappiamo che proprio la mole degli Stati-nazione che non riconoscono i diritti delle minoranze presenti dentro i loro confini – ed il centralismo della troika europea che essi stessi alimentano – risiede alla base delle disparità che ancora segnano il nostro secolo. Come liberali, a differenza di tanti indipendentisti di estrazione socialista e comunista, riteniamo che la vera prospettiva del conflitto sociale che abbiamo di fronte non sia di classe ma, come sosteneva Gustave de Molinari, fra l’onnipotenza del pubblico rispetto alla subordinazione del privato. Non crediamo quindi alle soluzioni teoriche di tipo comunitarista (alla Eliseo Spiga), perché la proprietà privata nelle sue varie forme non si discute, né alle decrescite (se al buonsenso antepongono l’integralismo), ma neppure alle nuove tautologie alla Paolo Barnard, importatore in Italia della cosiddetta “Teoria Monetaria Moderna”. D’altronde la Sardegna non ha neppure un collegio unico di rappresentanza a Bruxelles, aspetto su cui dovremmo batterci, né abbiamo ancora una seria sovranità fiscale, figurarsi se siamo nella fase di poter dibattere di politica monetaria con i grandi Paesi europei. Per stare con i piedi per terra infatti è opportuno conquistare prima di tutto un collegio unico separato da quello della circoscrizione siciliana, e solo in una seconda fase, quando la nostra Regione Autonoma avrà potenziato la propria sovranità e avrà assunto lo status di una minoranza nazionale, si potranno fare proposte per dibattere sul suo ruolo e su quello dell’Europa. Inutile e poco serio mettere il carro davanti ai buoi parlando dei massimi sistemi.

Nell’età dei lumi si erano presentate analoghe esigenze, da una parte la crescita di grandi potenze continentali, dall’altra l’affermarsi di nuove, con la necessità di tenere una politica dell’equilibrio fra le parti (ricordiamoci della lezione di Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre o del federalismo prospettato da Immanuel Kant nella sua Zum ewigen Frieden). Chi ci rimise furono sempre e solo comunità con istituzioni deboli e prive di adeguata sovranità (pensiamo alle varie spartizioni della Polonia). Fu persino uno dei protagonisti dell’epoca ad ammettere quanto una grande potenza è, per sua stessa definizione, causa di problemi. Commentando Machiavelli, Federico II° di Prussia disse che un potere disinteressato in mezzo a vari poteri ambiziosi avrebbe finito per soccombere. Di conseguenza doveva adeguarsi alla politica di potenza adottata dai propri vicini (1752).
Ciò che oggi dobbiamo contestare quindi è il principio secondo il quale la maggioranza, o i popoli più grandi, possano dettare condizioni ai più piccoli, sia in termini economici che culturali. Vogliamo una Europa in cui i candidati politici siano liberamente scelti tramite primarie, e dove qualsiasi scelta etica o che riguardi opere in uno specifico territorio sia presa tramite referendum dalla stessa comunità ivi stanziata. Perché ogni popolo ha diritto a scegliersi da solo i tempi, gli usi e le modalità della propria esistenza.

E’ chiaro che si tratta di processi storici che richiedono tempo, costanza ed una adeguata politica. In passato mari e fiumi contribuivano a diffondere idee nuove (pensiamo ai mercanti dell’Europa post-luterana che diffusero l’ideologia della Riforma per tutto il corso del Danubio), oggi la democrazia del web, e soprattutto una sana coesione politica fra forze autonomiste ed indipendentiste, ci permetteranno di ottenere il consenso per attuare le riforme sovranitarie di cui abbiamo bisogno.

Adriano Bomboi-Piras.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos

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