L’uomo del destino
Per inquadrare parte dei problemi attuali bisogna ricordare un anno storico per il Medio Oriente: il 2005. L’allora premier israeliano Sharon, per risolvere la questione palestinese, rese operativa una legge varata l’anno precedente, e avviò il “piano di disimpegno unilaterale”.
In cosa consisteva?
Nel ritiro di 21 insediamenti israeliani dalla Striscia di Gaza e ulteriori 4 dalla Cisgiordania.
Il piano era storico per due ordini di motivi: in primis perché poneva di fatto le basi per la futura creazione dello Stato palestinese, e in secondo luogo, perché implicitamente Israele riconosceva che la base per la pacifica convivenza coi palestinesi risiedeva nella fine dell’occupazione dei territori. Una premessa dunque essenziale che passava nelle mani dei palestinesi stessi i prossimi passi da compiere per la piena autodeterminazione dall’autorità di Tel Aviv.
Il piano fu attuato sia su base volontaria, permettendo ai coloni di lasciare gli insediamenti dietro indennizzo, ma anche tramite la coercizione, inviando l’esercito per sgomberare con la forza gli israeliani che non intendevano arretrare dalle proprie posizioni.
Pertanto, l’idea che Israele abbia sempre operato per la sistematica distruzione dei diritti dei palestinesi è falsa.
Ma che fine hanno fatto quei buoni propositi? E soprattutto, cosa accadde dopo il ritiro israeliano?
Tre vicende orribili: la prima è che Sharon, l’architetto politico dell’iniziativa, entrò in coma a seguito di un ictus cerebrale. Il suo opaco successore, Olmert, cercò di tenere in piedi la sua più riuscita formula politica del tempo: il Kadima, un partito centrista il cui obiettivo principale era quello di disinnescare l’immobilismo dell’allora arena politica, e in particolare della destra incarnata dal Likud, da cui lo stesso Sharon proveniva. L’esperimento fallì miseramente, perché da lì a breve accaddero le altre due terribili vicende di quegli anni.
La seconda infatti è che i palestinesi, trovatisi soli ad amministrare Gaza e la West Bank, partirono all’assalto del potere nel peggior modo possibile: si innescò una guerra civile, dove Fatah e Hamas si contesero col sangue il controllo dei territori.
Fatah, che inglobava la brigata dei Martiri di al-Aqsa, dovette fronteggiare un biennio di guerra cruenta alimentata da Hamas e dalle sue Brigate Izz ad-Din al-Qassam.
Il teatro di guerra fu principalmente Gaza, e forte di 6000 uomini, Hamas ebbe la meglio su Fatah, trasformando le istituzioni di Gaza in un regime islamico. Mentre Fatah riuscì invece a preservare il controllo sulla Cisgiordania, esercitato tramite l’ANP.
Hamas non abbandonò mai la guerra ad Israele e questo pose le premesse per il ritorno di Israele a Gaza. Un rientro pesantissimo, dove ogni lancio di razzi da parte palestinese diede luogo alla classica spirale ritorsiva a base di bombardamenti e incursioni israeliane sulla Striscia.
La terza vicenda è che, parallelamente alla guerra civile palestinese, si innescò anche la nuova guerra israelo-libanese, alimentata dagli Hizb’Allah.
Il motore propulsivo di questa destabilizzazione risiedeva a Teheran, e in particolare nell’allora governo Ahmadinejad, che oltre a reprimere il dissenso interno, dietro la giustificazione di una vacua linea “riformista” ed “antiterrorista” di matrice anti-sionista, continuò a supportare i suoi proxy nell’area mediorientale, minacciando la distruzione di Israele, ed avviò il primo programma nucleare.
Questa serie di eventi ha finito per influenzare pesantemente l’intera politica israeliana, tanto nel Likud quanto nei laburisti.
Da quel momento in poi non si è più inquadrata Gaza come una semplice entità autonoma, ma un’entità da contenere ed isolare, da tenere sotto tutela, per evitare che le frange massimaliste debordassero continuamente contro la popolazione civile israeliana.
Si è fatta così largo nella politica dello Stato ebraico l’idea che il disimpegno da Gaza sia stato un grave errore, e che i palestinesi non meritassero alcuna autonomia, men che meno uno Stato indipendente, perché la sua eventuale nascita avrebbe potuto costituire una ulteriore minaccia alla sicurezza di Israele.
Per capire dunque il Netanyahu del 2025, è necessario comprendere la sequela di eventi degli ultimi venti anni, depurandoli da ideologie e soprattutto da narrazioni largamente diffuse nei movimenti occidentali della sinistra radicale, e in parte della destra.
Tutto questo giustifica le attuali azioni israeliane a Gaza?
Si e no.
Si, perché in passato aver effettuato una concessione alla controparte, senza occuparsi della regia iraniana che alimentava la violenza, non ha minimamente risolto la pluridecennale contesa israelo-palestinese, e si rendeva necessario affrontare risolutamente Hamas. Soprattutto dopo i fatti del 7 ottobre 2023.
No, perché la destra nazionalista al governo di Israele ha trasformato la reazione ad Hamas, sulla scia degli eventi che abbiamo ricordato, in una guerra capitale contro l’intera Gaza, anche a carico di migliaia di innocenti che hanno avuto la sfortuna di trovarsi a vivere sotto l’autorità di Hamas.
Fatti che hanno via via spinto gli USA di Biden e più recentemente vari paesi europei, incluso il Regno Unito, a puntare l’indice contro il governo di Benjamin Netanyahu.
La nuova guerra di Gaza ha inevitabilmente aperto un fronte di critiche internazionali ad Israele, mentre al contempo, sul piano interno, Netanyahu è riuscito a tacitare le proteste dell’opposizione ed a ricompattare la propria maggioranza attorno ad una battaglia ritenuta esistenziale per lo stesso popolo ebraico, a torto o a ragione. In linea con questi sviluppi, la componente più radicale della destra, inclusi elementi razzisti, vedono in Netanyahu una sorta di “uomo del destino”, ossia colui che, dopo i falliti tentativi di premier come Sharon, sarà capace di imprimere una svolta storica a vantaggio della sicurezza dello Stato ebraico, contro tutti i nemici.
Ecco che inaspettatamente Netanyahu si trova ad un bivio della propria parabola politica: aiutato dalla congiuntura internazionale, tra cui il crollo della Siria di Assad e l’efficace decapitazione dei vertici di Hamas e di Hizb’Allah, può adesso contribuire a dare una spallata pure al regime iraniano.
Come verrà ricordato? Come l’uomo che ha devastato Gaza, frenando per gli anni a venire la nascita di uno Stato palestinese? Oppure come l’uomo che ha contribuito alla fine del quarantennale regime teocratico degli Ayatollah?
Indubbiamente, se la storia peserà nella propria bilancia entrambe le vicende, viceversa, alle pubbliche opinioni correnti importerà solamente ciò che saprà catturare il maggior interesse mediatico possibile. E almeno sotto questo profilo, il premier israeliano è riuscito a mettere in penombra la sanguinosa situazione di Gaza con l’attacco alla spietata dittatura iraniana, su cui si sono immediatamente allineati quasi tutti i governi occidentali, con alcuni distinguo.
Così nei talk oggi si dibatte su due questioni invero marginali: la prima riguarda i dubbi sulle capacità nucleari di Teheran, la seconda sull’attribuzione della qualifica di “aggressore” ad Israele.
Per quanto ci è dato sapere, sappiamo che l’Iran non avrebbe avuto in tempi rapidissimi una bomba atomica, ma era certamente sulla strada buona per farla. E chiunque tenti di far passare questa eventualità come la fialetta di Powell alle Nazioni Unite, non rende un buon servizio all’informazione.
Ciò che conta per Netanyahu è in realtà la capacità di Israele di sfruttare l’attuale debolezza del regime iraniano, ed il proprio primato tecnologico, per indurre un cambiamento nella politica di Teheran.
Un cambiamento non semplice, perché la piccola Israele non può permettersi un’invasione terrestre dell’Iran e dovrà puntare unicamente sullo smantellamento dei vertici e della deterrenza militare dei Pasdaran.
Il che potrebbe anche portare ad una caduta di Khamenei, ma non necessariamente alla democrazia, seppur attesa da milioni di iraniani. Magari ad una giunta militare, più laica e meno teocratica, o similare al modello pakistano, ma in schiave sciita. Difficile da prevedere.
Si tratta di un processo che nel corso dell’ultimo decennio è stato accompagnato dagli USA, e segnatamente dal periodo post-Obama. Perché l’accordo sul nucleare sviluppato dall’ex presidente democratico americano, assieme ad alcune potenze europee, con l’Iran, non aveva risolto i problemi di fondo nei rapporti con Israele, e men che meno aveva anestetizzato l’approccio imperialista sciita che era riuscito a scontentare persino le monarchie del Golfo. E che per lungo tempo ha visto fronteggiarsi i due schieramenti sulle spoglie dell’Iraq e nel conflitto dello Yemen.
La linea imperialista dell’Iran è stata duramente colpita durante il primo mandato Trump, dapprima con l’uscita USA dall’accordo sul nucleare, e in seguito con l’uccisione della mente che sottendeva alle operazioni iraniane in tutto il Medio Oriente, il generale Qasem Soleimani. Avvenuta nel 2020 presso l’aeroporto di Baghdad.
La sua eredità verrà raccolta, con meno successo, dal generale Hajizadeh, ucciso da Israele lo scorso 13 giugno.
In definitiva dunque, stabilire l’identità dell’aggressore tra due Stati come Israele ed Iran, per chi conosce bene la loro politica estera, appare un esercizio velleitario. Attribuibile per lo più ad una retorica ideologica dalla regia internazionale, tendente ad assegnare ogni male al duo Tel Aviv-Washington, per sottrarre responsabilità all’Iran e segnatamente a se stessa. Mi riferisco ovviamente alla Russia, che in questa fase storica, essendo occupata a demolire in Ucraina tutto il proprio potenziale bellico, si trova altresì impotente nella difesa dei pochi alleati mediorientali rimasti, soprattutto l’Iran.
Nel caos generale emergono due semplici certezze: senza mutamenti nella postura iraniana, difficilmente avremo una politica palestinese realmente libera di autodeterminarsi, così come Israele non permetterà la nascita di uno Stato palestinese almeno finché resterà in sella l’attuale esecutivo Netanyahu. Sia che vinca o sia che non risolva nulla contro l’Iran.
In occidente invece il dibattito sulla crisi mediorientale continuerà ad essere inquinato da forze populiste, soprattutto di sinistra, che al posto di tutelare l’applicazione del diritto internazionale e pretendere la democrazia da regimi quali Iran e Russia, continuerà a blaterare di improbabili ed imminenti “guerra mondiali”. E ad agitare ipocritamente slogan fini a se stessi, senza comprendere l’entità e la complessità dei problemi che attraversano tutti i protagonisti di questo ennesimo conflitto.
Ossia qualcosa che non serve a sensibilizzare con serietà i governi, né serve ai palestinesi per tutelare se stessi dal nocivo paternalismo di alcuni vicini, e men che meno servirà ad Israele per avvicinarsi ad una politica sì risoluta, sulle cause dei problemi, ma non aggressiva contro coloro che hanno il diritto di non finire uccisi in casa propria a causa di qualche bombardamento dell’IDF.
Saremo anacronistici, ma in questo spazio sosteniamo ancora il diritto all’esistenza dello Stato di Israele e anche la nascita di uno Stato palestinese.
Di Adriano Bomboi.
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