Perché l’indipendentismo sardo non cresce?

Perché l’indipendentismo sardo non cresce?

Perché, parafrasando il politologo Vittorio Emanuele Parsi mentre si riferisce a ben altra tragedia di attualità, sia il nostro indipendentismo extraconsiliare, sia il sardismo di governo, non esprimono un’alternativa “seducente”. La “vision” è completamente assente.

Ma cosa significa esattamente?

L’indipendentismo sardo non offre alla platea elettorale un’efficace e attraente narrazione rispetto ai partiti italiani, i quali, agli occhi di tanti sardi, rappresentano invece un’effimera garanzia di stabilità e speranza di progresso, assicurando un certo grado di assistenzialismo (che si sostanzia nel trasferimento a vario titolo di risorse dal centro alla periferia). Il tutto unito ad una hybris nazionalista, trasversalmente diffusa nella cultura politica italiana, che tende ad assicurare anche ai sardi la possibilità di avere un posto o un ruolo nella tavola della storia e dei grandi della terra.

La proposta indipendentista, nella sua duplice veste di lotta e di governo, non è seducente, non esercita fascino né interesse. Non esprime utilità pratica, neppure economica, e in definitiva, come affermò tempo addietro Bustianu Cumpostu (SNI), non è delegabile.

Nella sua prima variante, quella formata da microsigle prive di una diffusa rappresentanza nelle amministrazioni sarde, esprime la “vision” di un’isola incapace di rapportarsi coi mercati e con la comunità internazionale. Con un’economia arretrata, priva della capacità di erogare dei servizi essenziali alla popolazione, nonché vicina a paesi del terzo mondo. Basti pensare alle solite proposte di sinistra radicale, contrarie ad un fantomatico “neoliberismo” che avrebbe il suo asse in Roma, nelle Regioni settentrionali e nelle istituzioni internazionali, che starebbe dominando l’isola, a cui contrappongono ricette populiste che, se applicate, incrementerebbero drammaticamente la quota dell’interventismo pubblico nel PIL dell’isola (già elevato di suo con una spesa monstre pari al 59,9%). Una circostanza che deprimerebbe ulteriormente le capacità del tessuto produttivo di generare nuova ricchezza o di porsi come attrattore per nuovi investimenti, consegnando infine il territorio al default. Ma anche a maggiori ingerenze esterne alla Sardegna per la sua amministrazione.

Questo indipendentismo non dialoga realmente con cittadini e imprese, non ne conosce le esigenze, né i limiti dell’istruzione (da cui deriva una scarsa produttività del tessuto economico), e del mercato del lavoro (in cui persiste un’alta fiscalità sul lavoro, ed una produttività bassissima che investe tanto gli imprenditori quanto i propri subordinati). Le microsigle indipendentiste finiscono dunque per sbagliare completamente approccio rispetto allo studio e all’elaborazione di soluzioni che invece dovrebbero ottenere anche il consenso e il supporto politico-economico del settore produttivo sardo.

Non è forse nell’interesse di un imprenditore abbattere il sostituto d’imposta? Oppure il cuneo fiscale che grava sulle assunzioni? O il complessivo tax rate all’impresa? Fattori da cui conseguirebbe una maggior capacità di investire in innovazione e crescere in produttività e fatturato. E non è nell’interesse del lavoratore dipendente far si che un aumento della produttività contribuisca all’innalzamento del salario, almeno in linea con la media UE? E non è nell’interesse di queste due figure sostenere partiti politici che parlino apertamente di questi problemi? O non è nell’interesse del cittadino avere istituzioni “elvetiche” che rendano più vicine, più trasparenti e più efficaci le politiche pubbliche destinate al territorio? Non è nel nostro interesse evitare che la politica lottizzi media, fondazioni bancarie ed enti pubblici vari?
Cioè cambiamenti positivi che non devono necessariamente portare all’indipendenza della Sardegna, ad un’Italia federale, o all’alterazione della stabilità sociale.

È del tutto evidente che se dei partiti indipendentisti non hanno questi temi nel proprio programma, ma astrazioni ideologiche prive di riscontro pratico nella vita della comunità, e al tempo stesso manifestano simpatia verso il solo settore dell’agroallevamento, e verso realtà povere e autoritarie quali Cuba e Russia in chiave antioccidentale, il grande elettorato non li seguirà mai. Continueranno a porsi ai margini dello scenario politico, attraendo frange minoritarie e radicali di elettorato.  Senza riuscire a proporsi come starter di un avanzamento collettivo. Sbagliato pertanto addossare tutte le responsabilità alle pessime leggi elettorali.
Questo limite non contribuisce neppure ad un ricambio delle loro classi dirigenti e della qualità media dei candidati sparsi nel territorio, che rimangono gli stessi nel corso degli anni, con le stesse idee, e che risultano impresentabili agli occhi dell’elettorato, finendo per essere rimasticate nei vari flop di consenso. Nel corso delle elezioni infatti non sono i contenuti che cambiano, e cioè la “vision” della Sardegna che hanno in mente, ma solo la tinteggiatura o la denominazione del contenitore politico con cui si presentano al pubblico (un aspetto comunque anch’esso importante di cui tenere conto).
A ruota, questa impossibilità di sviluppare un radicamento sociale nella popolazione e nel suo ceto produttivo determina una cronica assenza di risorse da investire in propaganda politica, per migliorare l’immagine, la comunicazione, lo studio dei contenuti e la generale proposta politica che potrebbe essere invece nell’interesse di tutti i sardi conoscere. O conoscere meglio.

Per capirci, dal 2005 in poi questo spazio portò avanti una battaglia serrata contro contenuti e stili di comunicazione allora in voga, e in parte anche oggi, di tutti i movimenti indipendentisti, IRS inclusa, che ritenevamo folklorici e vicini a modelli di sinistra radicale. Promuovemmo addirittura il superamento della colorazione rossa nei manifesti dei movimenti, nonché, in modo tragicomico, il taglio della barba, l’utilizzo di giacca e cravatta in candidati che presentavano un aspetto discutibile. Per non parlare dei programmi, evidenziando così gli alti livelli di approssimazione e ingenuità politica presenti. Fu una rivoluzione culturale in chiave liberale.

Ma esiste pure la seconda variante dell’autonomismo sardo, quella sardista. E purtroppo tende ad esprimere la “vision” di un’isola “endemicamente sottosviluppata”, le cui possibilità di sopravvivenza “derivano” unicamente dall’intermediazione di risorse dal centro, da riversare costantemente nel nostro sistema socio-economico, senza portare avanti alcun genere di riforma (peraltro invece previste nella storica produzione intellettuale del sardismo, si pensi alla mitologica riforma dello Statuto regionale o all’adozione formale del plurilinguismo).
Un modus operandi di stampo keynesiano e clientelare, con venature democristiane e socialiste, diffuso in tutto il mezzogiorno italiano, che tende a confondere il sardismo politico coi propri alleati italiani di governo, rifugiandosi nell’ordinaria amministrazione e nel palese disinteresse ad investire in qualsiasi forma di concreto cambiamento.
Il suo successo politico, ma non amministrativo, deriva dai cartelli elettorali periodicamente suscettibili di ottenere buoni pacchetti di voti, per lo più sulla base della disaffezione verso le giunte precedenti, del trasferimento di risorse pubbliche verso determinati stakeholders per il puntellamento del consenso, o sull’onda di un emergente interesse mediatico verso un partito od una proposta programmatica “di moda” proveniente da Roma.

In buona sostanza, per innescare una crescita dell’indipendentismo serve una nuova “vision”, una concreta svolta su contenuti e proposte, che solo a posteriori, e non il contrario, consentiranno di espandere il radicamento elettorale, attirando nuove competenze e nuove risorse, umane ed economiche, da investire nella promozione delle riforme.

Riforme la cui importanza va spiegata e illustrata, per esporre la Sardegna del domani. Un’isola che non vorremmo spopolata ed assistita, ma capace di generare ricchezza in proprio, con una cultura aperta al globo, al passo coi tempi, e portatrice di un’economia sana e diversificata, priva di romantiche e obsolete interpretazioni del lavoro e di determinate professioni.

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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