Amaro discorso di fine anno

Nell’Italia dei salvataggi di aziende in perdita, dalla pastorizia all’Alitalia, dalle banche alle clientele locali, in cui fisco, burocrazia e debito record ci hanno consegnato il paese con la più bassa crescita d’Europa, il ministro dell’Economia Gualtieri ha il coraggio di andare da uno dei maggiori quotidiani a dire che “serve più Stato”.
Come se non ne avessimo abbastanza.

Chi pensa che l’anno nuovo, e i prossimi, saranno migliori del presente, vive di pie illusioni. Finché possibile, la semi-istruita politica al potere, celandosi dietro la retorica della redistribuzione e dei “fallimenti del mercato”, continuerà ad estrarre risorse alle poche aree produttive del paese, consolidandone il declino, ed obbligando le altre a campare di assistenza.

In fondo, che differenza c’è tra un pastore sardo e una docente del sud?

Di Adriano Bomboi.

Un recente articolo della giurista Vitalba Azzollini (Osservatorio CPI) ha posto l’accento su alcuni dei principali mali d’Italia, cui la Sardegna ha la disgrazia di appartenere: l’eccesso di regole e l’assenza di verifiche della loro efficacia.

Abbiamo una burocrazia formata da una mole di leggi e norme varie, accompagnate da una pletora di sussidi (rivolta tanto alle maggiori realtà imprenditoriali, quanto alle minori), che da un lato rallenta la crescita dei migliori, e dall’altro avvantaggia i peggiori.

La “patria del diritto” è in realtà un paese profondamente ingiusto, in declino e a due velocità. Un paese dove, per dirla con le parole del sociologo Luca Ricolfi, una società signorile di massa, cioè una maggioranza di persone che non lavora e non produce ricchezza, parassita e spreca risorse di un’operosa minoranza di concittadini, mentre la produttività generale rimane bassa. Complice il peso di tanta burocrazia, che a sua volta rende irriformabili la giustizia e soprattutto una pubblica istruzione conservatrice e inadeguata. La quale a sua volta conduce ad un’alta dispersione scolastica e ad una mole di titolati privi delle effettive competenze per accedere al mercato del lavoro.

La politica, dal canto suo, per rimanere al potere, celandosi dietro gli alibi della redistribuzione e della sovranità “nazionale” (un mix di nazional-socialismo), agisce come estrattore di risorse per conto di tale maggioranza, proteggendo un esercito di pensionati, di clientele diffuse ed inefficienze incapaci di confrontarsi col mercato (anche tramite un credito clientelare), a danno di chi è in grado di farlo. E accusando persino il mercato stesso per l’incapacità di starvi dentro.

Non stupisce dunque che il maggior esponente di questa politica, l’anziano presidente della Repubblica, se la prenda contro l’evasione fiscale, nonostante l’Italia abbia il fisco più pesante d’Europa a carico delle imprese. L’evasione infatti è sintomo e non causa dei problemi. Mentre la CGIA di Mestre denuncia giustamente le inefficienze e gli sprechi pubblici come socialmente più dannosi rispetto all’evasione fiscale (pari ad un importo di 200 miliardi di euro all’anno).

Insomma, l’Italia è un cane che si morde la coda: non studia abbastanza per capire come produrre nuova ricchezza e brucia quella esistente più a vantaggio dei vecchi che dei giovani, nella fantasiosa speranza di crearne ancora. A supporto della nostra tesi non manca neppure il ministro dell’economia Gualtieri, che dalle pagine di “La Repubblica” ha auspicato una maggiore presenza dello Stato, come se non ne avessimo abbastanza.

Che il diffuso analfabetismo economico sia parte in causa nella creazione di questa politica è del tutto lecito pensarlo. Il voto non proviene solamente dal grande affarista a caccia di protezione pubblica, ma persino del piccolo pastore sardo e della piccola insegnante del sud: il primo pensa che potrà difendersi a oltranza da una concorrenza capace di proporre prodotti di qualità a prezzi più bassi; il secondo pensa che il prezzo del latte non derivi dalle dinamiche del mercato di cui è artefice ma dal valore “che dovrebbe essere determinato dai politici”; mentre la terza, incapace di comprendere il vantaggio di diversificare degli investimenti, pretende aiuto pubblico perché ha perso tutto il suo denaro, che ha investito in una sola banca, a sua volta incapace di stare sul mercato.

Si tratta di tre soggetti molto diversi tra loro ma tutti figli della medesima incultura politica. Abbiamo una società in cui non esiste più il concetto del “rischio d’impresa”, e dove, se si è incompetenti nel fare qualcosa, secondo una la diffusa vulgata socialista, bisogna essere salvati di diritto coi soldi degli “altri”. Cioè di chi ha studiato e sa fare impresa o sa fare un investimento.

Cari giovani, è tendenza degli esseri umani sperare in un domani migliore, ma voi siete equiparabili ai borghesi della belle époque: troppo occupati a canticchiare in piazza per accorgervi dei nuvoloni neri che si addensano all’orizzonte.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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