Referendum: una cattiva riforma per una cattiva politica

Referendum: anche tra chi vota NO c’è chi non intende santificare l’attuale Costituzione. Questa nacque col preciso intento di appesantire i processi decisionali e la governabilità per evitare ipotetiche derive autoritarie. La carta rappresentò un compromesso tra federalisti e accentratori. Un compromesso tra posizioni più aperte all’economia di mercato e posizioni affascinate dai piani quinquennali staliniani. E’, pertanto, una Costituzione nata per impedire e rallentare, per far convivere tutto e il suo contrario, producendo come risultato un esperimento di eugenetica politica che blocca la libertà economica e la proprietà privata, senza tutelare adeguatamente le necessità autonomistiche dei territori. Il neocentralismo renziano intende limitare ulteriormente i pochi margini di libertà esistenti – Di Luca Tolu.

Il referendum  costituzionale del 4 dicembre poteva essere un’occasione di crescita per confrontarsi su cosa non va bene nell’attuale assetto costituzionale e proporre i giusti correttivi a un sistema chiaramente superato e non in grado di garantire i giusti standard di equilibrio tra efficienza e rappresentatività, invece è diventato il solito terreno di scontro tra diverse e opposte armate Brancaleone, trasformatesi per l’occasione in ammucchiate di cultori della baruffa da bar sport.

Del resto, Winston Churchill, a proposito degli italiani, dichiarava che “vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra”. Partendo dall’assunto di Von Clausewitz che “la politica è una continuazione della guerra con altri mezzi”, possiamo in questo modo chiudere l’equazione logica affermando che sarebbe piuttosto difficile assistere in Italia a una campagna politica capace di elevarsi a un livello superiore rispetto a uno scontro tra tifoserie. I massimi goleador in questo degrado sono sempre i soliti “fenomeni”: dalle minacce clientelari di De Luca – “Fate votare Sì. Renzi manda fiumi di soldi. Che vi piaccia o no me ne fotto” – fino agli insulti di Beppe Grillo, capace di etichettare il fronte del Sì come composto da “serial killer” e il Presidente del Consiglio una “scrofa ferita”.

Entrando nel merito delle posizioni politiche il livello non migliora. In queste settimane di campagna referendaria abbiamo ascoltato politici e opinionisti renziani utilizzare le stesse motivazioni dei berlusconiani nella campagna referendaria del 2006 (peccato che allora il centrosinistra fece di tutto per sabotare la riforma), mentre dall’altra parte ci si ergeva a lodi sperticate dei padri costituenti e della costituzione italiana, tornata improvvisamente a essere il Santo Graal della politica italiana. Purtroppo, con le generalizzazioni e le facilonerie difficilmente si riesce a tirare su una discussione seria. Niente è tutto bianco o tutto nero, e di certo la suprema carta e lontana dal poter essere considerata “la più bella del mondo”.

Qualsiasi visione fideistica della costituzione è una mitologia avulsa dalla storia e dall’attuale deludente realtà politica ed economica italiana che è, di fatto, un prodotto delle scelte dei padri costituenti. La carta costituzionale, oltre ad essere stata costruita con il preciso intento di appesantire i processi decisionali e la governabilità per evitare ipotetiche derive autoritarie, è anche un grande compromesso tra i partiti politici dell’assemblea costituente, alcuni dei quali non erano certamente bendisposti nei confronti della democrazia liberale, di un sistema federale e della moderna scienza economica. E’ un compromesso tra democratici e cultori dei soviet. E’ un compromesso tra federalisti e accentratori. E’ un compromesso tra posizioni più aperte all’economia di mercato e posizioni affascinate dai piani quinquennali staliniani. E’, pertanto, una costituzione nata per “impedire”, per “bloccare”, per far convivere tutto e il suo contrario, producendo come risultato un esperimento di eugenetica politica che blocca l’economia non tutelando a dovere la libertà economica e la proprietà privata, e ingessa i processi di decision making (incredibile la follia del bicameralismo perfetto) non tutelando adeguatamente le necessità autonomistiche dei territori.

Questo significa che qualsiasi cambiamento sarebbe meglio? Naturalmente No. L’attuale costituzione, seppur vittima dell’influenza nefasta del togliattismo e dei suoi mandanti orientali, sarebbe certamente peggiorata dai cambiamenti proposti dai suoi bizzarri eredi democristiani impersonati dal Premier Matteo Renzi e dal Ministro Maria Elena Boschi. Vediamo brevemente perché analizzando i tre punti forti della riforma: superamento del bicameralismo perfetto, diminuzione dei costi della politica e revisione del Titolo V.
Iniziando dal superamento del bicameralismo paritario (Camera e Senato con le stesse funzioni), ricordiamo in breve che la riforma riguarda i poteri e la composizione del nuovo Senato delle Regioni che sarà composto da 21 sindaci e 74 consiglieri regionali, scelti dai consigli regionali, più 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica. In sintesi, per quanto sia evidente l’inutilità del bicameralismo paritario e della conseguente “navetta” dei provvedimenti legislativi tra le due camere, la proposta di riforma, pur intendendo superare tale blocco, lo fa in modo confuso, tendenzioso e inadeguato. Confuso, perché non disciplina in modo preciso i campi d’azione del Senato delle regioni aprendo la strada a nuovi e infiniti conflitti d’attribuzione con la Camera dei Deputati di fronte alla Corte Costituzionale. Tendenzioso, perché ripiomba nella brutta abitudine dei “politici nominati”, con un Senato di cooptati dalle segreterie di Partito e destinato ad avere un colore politico diverso dalla Camera dei Deputati producendo instabilità istituzionale. Inadeguato, perché la scelta più funzionale sarebbe dovuta essere la semplice soppressione del Senato.

Passando alla presunta diminuzione dei costi della politica, questa è pura propaganda per inseguire i grillini. Al netto della cancellazione delle Provincie – che in Sardegna tramite referendum proposto dai Riformatori già erano state eliminate salvo poi averle fatte rientrare dalla finestra con diverso nome per opera del PD, e che comunque saranno sostituite da altri enti intermedi come le Città Metropolitane – tutto il resto è fumo negli occhi. Con la soppressione degli stipendi dei senatori si risparmiano circa 50 milioni di Euro, poco più del quadruplo del bilancio di un Comune di 5000 abitanti come Sarroch, una miseria in termini macroeconomici.

Se nei due ambiti sopra citati la vittoria del Sì causerebbe soltanto molti pasticci, la trasformazione del Titolo V produrrebbe invece gli effetti più preoccupanti in termini di evoluzione politica. La riforma elimina le cosiddette “materie concorrenti”, quelle su cui oggi hanno diritto di intervenire sia lo Stato sia le Regioni a statuto ordinario, restringendo pesantemente le autonomie regionali. Con questa proposta di riforma costituzionale il centrosinistra renziano compie così un intollerabile dietrofront in tema di Federalismo, cancellando con un colpo di spugna quel poco di aggiuntiva autonomia guadagnata dai territori con la timida riforma costituzionale del 2001. Allora, il centrosinistra, per inseguire la Lega Nord, fece approvare un compromesso di sistema federale fortemente al ribasso. Oggi, invece, impossessato da una schizofrenia politica incomprensibile, vorrebbe blindare queste stesse funzioni allo stato centrale, riportando indietro le lancette della storia al centralismo napoleonico. Il presupposto renziano alla base della riforma è il binomio centralismo uguale efficienza, anche se in realtà i Paesi con il più importante livello di sviluppo sono degli Stati Federali che fondano il proprio successo sull’autogoverno dei territori e la responsabilità fiscale. E’ piuttosto evidente costatare che i problemi dell’Italia non siano legati all’autonomia delle regioni, ma alla corruzione endemica, al voto di scambio e all’assistenzialismo. Tutti fenomeni che fanno schizzare alle stelle la spesa pubblica e il debito pubblico, dei mali endemici del “modello italiano” che rendono impossibile l’unica vera e necessaria riforma: il taglio netto e drastico della pressione fiscale.

In poche parole, ci troviamo dinanzi ad una riforma che da un lato getta fumo negli occhi e dall’altro fa tornare indietro il paese in tema di decentramento, non dimostrando quella necessaria discontinuità nella mentalità di governo. L’Italia ha bisogno di altro, di una politica che abbia visione e consapevolezza dei veri problemi e delle possibili soluzioni.
Merita, invece, un discorso a parte la questione delle ripercussioni della riforma nei confronti delle regioni a Statuto Speciale come la Sardegna. L’autonomia della nostra isola non sarebbe direttamente intaccata dalla revisione del Titolo V, giacché lo statuto della Regione, essendo legge costituzionale, è rinforzato rispetto ai normali statuti ordinari. Ciò nonostante, una vittoria del Sì produrrebbe un clima avverso al decentramento e alle autonomie, rischiando di compromettere nel medio e lungo periodo i nostri standard di autogoverno. Inoltre, e questo è probabilmente l’elemento più pericoloso dell’intera revisione costituzionale, la riforma Renzi-Boschi, proponendo la clausola dell’interesse “nazionale”, con cui il Governo centrale può sovrapporsi e scavalcare i legittimi provvedimenti delle Regioni autonome, intaccherebbe immediatamente e direttamente l’autonomia sarda consegnando ai politici romani un potere enorme a discapito dei territori.

Tirando le somme di quanto scritto, tale riforma, anche se coglie i punti dolenti del sistema italiano, propone però confuse ricette e sbagliate soluzioni, soprattutto nel clamoroso passo indietro sul Federalismo. Su quest’ultimo tema Renzi dimostra di non conoscere adeguatamente la storia italiana e la natura del variegato popolo che soltanto da 150 anni chiamiamo “italiano”. Una storia di comunità con lingue, culture e radici storiche spesso radicalmente diverse. Tentare di irreggimentare tali culture in un unico recinto è un attacco alla natura stessa di questi popoli che da sempre si sentono molto più legati ai propri territori rispetto ai lontani palazzi romani.

Votare Sì equivale quindi semplicemente a sposare il programma di egemonia personale di Matteo Renzi, con il rischio che il combinato disposto tra la legge elettorale “italicum” e la revisione costituzionale possa aprire le porte a futuri governi di “minoranza” nel paese reale. In questo scenario, un partito, magari con tendenze eversive, con il 25-30% di consenso di quella metà di italiani che ancora vanno a votare, potrebbe salire al governo della nazione. Votare Sì a Renzi potrebbe, in questo modo, trasformarsi in un boomerang: una deriva horror che aprirebbe le porte del potere a Beppe Grillo e al proprio movimento illiberale. Votare No, invece, apre le porte a diverse possibilità, certamente meno dannose.

Iscarica custu articulu in PDF

U.R.N. Sardinnya ONLINE

Be Sociable, Share!

    Commenta



    Per la pubblicazione i commenti dovranno essere approvati dalla Redazione.