Borghesia sarda e monopolio Tirrenia di Onorato. Ma non solo

Adriano Bomboi.

Nel suo ultimo articolo, Maurizio Onnis ha ricordato quanto l’inconsistenza della borghesia sarda abbia storicamente confinato l’isola verso l’immaturità economica, su cui concordo. Ora compito degli indipendentisti è scoprire quanto siano state complesse le dinamiche che hanno portato a questa situazione. Nel mio nuovo libro sull’indipendentismo mostro infatti come la borghesia sarda non sia stata sempre assente dalla volontà di sviluppare la propria influenza a favore della Sardegna, poiché la storia politica ed economica dell’isola espone precisi fattori di cui tenere conto nella nostra riflessione.

Nell’Ottocento, di cui ho già parlato, la fase liberale seguita all’adozione delle chiudende mise in moto due fattori fondamentali: 1) l’estensione del credito locale; 2) la capacità di esportazione della produzione locale. L’avvento del protezionismo italiano nella fine dello stesso secolo arrestò entrambi i risultati, inducendo la borghesia sarda (sia quella mercantile che dedita al commercio interno) a ripiegare sulla difensiva, ritagliando il proprio ruolo a quello dell’intermediazione fra il centro e la periferia, e impedendo così alla politica locale di sviluppare ciò che in politologia si chiama “cleavage”, cioè la rottura fra il centro e la periferia per il dominio degli interessi locali. E che storicamente, stando agli studi di Stein Rokkan e Martin Lipset, sta alla base dei processi che alimentano la nascita dei partiti etnoregionalisti (la Sardegna arriverà tardi e male a questo appuntamento solo nel Novecento, con la nascita del Partito Sardo d’Azione, peraltro inefficace).

Perché questo ritardo? Perché i sardi non si sono mai difesi abbastanza? Per tre ragioni fondamentali: 1) perché, come suddetto, il protezionismo italiano, nel momento in cui chiuse il tradizionale bacino francese dell’export sardo, causò il crollo del nascente e fragile sistema del credito sardo, soppiantato da capitali italici; 2) perché la pervasività culturale della stampa dell’epoca e dell’omologazione culturale e linguistica impedì ai ceti più facoltosi la capacità di ritenersi autonomi rispetto agli interessi della penisola italiana (una disarticolazione tutt’ora in atto); 3) perché, soprattutto, con la fusione perfetta del 1847 era venuta meno la capacità di rappresentanza politica della deputazione isolana. A Torino nei primi anni di esercizio il Parlamento subalpino rappresentava solamente il 5% dell’intera popolazione sarda. In altri termini, i Sardi non erano più sovrani. O meglio: ancor meno di quanto lo erano stati sotto la dominazione iberica, la cui tradizione politica rispettava l’esistenza dei parlamenti locali (gli stamenti).

In Sardegna la strutturazione della dipendenza economica, che si è espansa verso potenti meccanismi elettoralistici di stampo clientelare (sia nella fase del notabilato politico del Regno d’Italia che nella DC e nella sinistra di epoca repubblicana), non ha aiutato il vecchio autonomismo e neppure il sardismo del secolo scorso a maturare con convinzione una propria dimensione politica in supporto dei ceti produttivi, che sono stati così completamente incanalati nel cascame culturale del centralismo italiano. Basti pensare al supporto del Partito Sardo d’Azione a favore della “Rinascita”, per l’industrializzazione pesante del nostro territorio. Fu un’epoca in cui il presunto “autonomista” Paolo Dettori (voce indiscussa della Democrazia Cristiana), sosteneva l’assoluta “coincidenza” degli interessi sardi a quelli italiani. Per capirci: mentre Cagliari inseguiva il sogno di espandere il settore secondario, nello stesso arco di tempo l’Alto Adige univa le istanze linguistico-culturali attorno ad un progetto politico teso a valorizzare il ruolo dell’imprenditoria privata (e a differenza della Sardegna promuovendo i settori primario e terziario dell’economia, nella sua componente ricettiva).

Oggi l’impoverimento culturale della nostra classe dirigente risulta ancora evidente nelle classiche dinamiche elettoralistiche contrassegnate da un largo uso del voto di scambio, per una economia di assistenza che non si è liberata da formule di predazione del territorio: pensiamo alle speculazioni eoliche, o all’attenzione riservata attorno a poli industriali improduttivi e fuori mercato come Ottana-energia. Mentre partiti come Forza Italia e PD persistono nel promuovere investimenti di scala altamente impattanti sul piano dell’eco-sostenibilità ambientale. E a fronte di partiti sardi che non comprendono che solo liberando le nostre partite IVA dal peso del fisco e della burocrazia queste costituirebbero un naturale anticorpo di mercato contro le avventure piratesche a danno dell’isola. Perché in condizioni di vero libero mercato, idiozie come la “chimica verde”, o imprenditori come Clivati o come Onorato, quest’ultimo patron dell’oligopolio Moby-Tirrenia, verrebbero stracciati via dalla concorrenza (e dalla nostra proposta di legge per realizzare un Antitrust sardo, capace di colpire la concentrazione di posizioni dominanti).

Mi trovo quindi d’accordo anche con Omar Onnis quando ricorda che persino il patrimonio archeologico sardo, per il suo grande potenziale ricettivo, potrebbe porsi come concorrente delle tradizionali mete italiche nel Mediterraneo.

L’approccio per risolvere i problemi energetici, produttivi e dei trasporti dell’isola non arriverà da fesserie chiamate “autosufficienza” o “flotte sarde”, ma potrà essere solo sistemico e sovranitario. Ed ecco, oltre all’Antitrust, altri suggerimenti su questi argomenti:

Per chi volesse approfondire il caso Ottana ma anche Saras rimando al seguente articolo: Idee contro gli eco-furbi e sugli investimenti pubblici in energia (Sa Natzione, 01-10-14).

Per capire la situazione del trasporto aereo in Sardegna e l’origine dei suoi problemi: Ecco perché Meridiana è in crisi (Sa Natzione, 19-11-14).

Nei prossimi giorni tornerò sul tema di un ipotetico Partito Nazionale Sardo, e sull’opportunità o meno di realizzare un grande partito della sinistra sarda. Probabilmente i dati economici suggeriscono che l’isola abbia bisogno di qualcos’altro.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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