Lingua Sarda: è lecito o meno adottare uno standard?

“Nei Paesi democratici la scienza dell’associazione è la scienza madre, quella dalla quale dipende il progresso di tutte le altre” - Tocqueville (Parigi 1805-1859).

Quando viaggiai in Libano, ebbi modo di studiare la storia, la politica e la mentalità del Paese. Ebbene, prima della vecchia guerra civile, Beirut era la Miami del Medio Oriente e del Mediterraneo orientale, ma successivamente, in una delle fasi più cruente del conflitto, la frammentazione delle fazioni era arrivata al punto da distruggere le fondamenta di ciò che in passato aveva rappresentato la base dello sviluppo e della reciproca convivenza. Si arrivò al cosiddetto “Hotel Front” (fase 1975-77), in una miriade di sigle, tutti contro tutti al Palm Beach, al St. Georges, al Phoenicia InterContinental Hotel e vari altri. Ci si muoveva non solo per la leadership di una componente sull’altra, ma, per cause esterne ed interne al Paese, fu una battaglia per conquistare fin l’ultimo metro quadrato a disposizione. La sanguinosa battaglia degli Hotel, combattuta piano per piano, stanza per stanza, è ancora oggi uno dei più classici esempi di cosa possa succedere alle fazioni di una popolazione quando il dialogo viene sostituito dalla negazione dei diritti delle minoranze.

Perché un esempio di anarchia così radicale? Perché oggi essere indipendentisti in una democrazia significa capire quale modello di Stato (ottocentesco) vogliamo contestare e quale modello di Stato intendiamo contribuire a costruire, correggendo gli errori di percorso ed ogni possibile deriva che ne impedisca l’affermazione. Oggi l’indipendentismo si occupa prevalentemente del primo problema ma poco e confusamente del secondo, inducendo la Pubblica Opinione a consolidare determinati luoghi comuni che vedrebbero nell’indipendenza un salto nel buio. Come si elimina questa paura? Prima di tutto facendo sistema: l’indipendentismo, prima che la società stessa, a prescindere dal pluralismo di vedute, può e deve maturare dei punti di contatto in comune per ridurre tutta la serie di micro-partiti e presentarsi ai cittadini in modo compatto. Questi punti in comune sono rappresentati dai diritti. Ovvero, se prima non si comprendono i diritti della popolazione che si vorrebbe rappresentare, non si può pretendere di costruire una organizzazione istituzionale che la tuteli. In Sardegna la lingua Sarda è il primo di questi diritti. L’esercizio di questo diritto non può essere ridotto ad una pura velleità folclorica, ma deve uscire dalla condizione di frammentazione e di subalternità sociale per poter assumere un ruolo sotto il profilo culturale, economico e soprattutto politico, senza il quale viene meno tutto il resto.

Colgo quindi l’occasione per replicare a Luigi Masala, che ringrazio per l’attenzione, intervenuto sul forum dell’associazione “Diritto di Voto” in materia di “standardizzazione” della Lingua Sarda (Limba Sarda Comuna).
In qualità di liberale, estremamente critico verso l’attuale Stato-nazione, non posso che concordare nella critica verso ogni imposizione calata dall’alto, non foss’altro perché in ambito linguistico lo stesso italiano si è affermato a seguito di una costante e capillare rimozione delle varie lingue preesistenti alla Repubblica Italiana. E come ci ha sempre insegnato Popper, quando un diritto finisce per invadere quello degli altri, allora ci siamo mossi oltre il campo delle legittime libertà personali.
Eppure, a prescindere dal colore della Giunta che la adottò, sulla LSC non possiamo essere troppo severi, né dobbiamo confondere la linguistica con la politica linguistica. E paradossalmente, proprio la standardizzazione può essere uno strumento assolutamente valido per dare corpo ai diritti civili dei Sardi ed aumentarne il loro peso politico, attraverso quei movimenti che tutt’ora nella frammentazione e nella confusione ideologica finiscono spesso per sacrificare nell’indifferenza quell’unico elemento del territorio che, in assenza di una diffusa coscienza nazionale Sarda, può costituirne un saldo punto di riferimento e di sviluppo.
E’ chiaro che nel 2013 la LSC che conosciamo non può dirsi come la soluzione a tutti i mali del Sardo, ma non possiamo neppure ignorare che, soprattutto negli ultimi 60 anni, la lingua Sarda ha subito un lento ma deciso processo di eradicazione sociale, un vuoto che è stato colmato dalla politica assimilazionista italiana. Non possiamo neppure affermare che la sola adozione di una koinè per i documenti regionali possa configurarsi come un serio e credibile “attentato” all’esistenza delle parlate comunemente utilizzate dai Sardi sul piano informale. La koinè avrebbe piuttosto l’obiettivo di integrare le varie sensibilità linguistiche del territorio sotto il profilo giuridico, ma non di sostituirle, come spesso viene impropriamente affermato. Il discorso che ci preme far passare è che la Lingua Sarda deve essere intesa come un unico corpus politico, pertanto, che l’adozione della koinè sia linguisticamente valida o meno è un tema che lasciamo volentieri alla competenza dei linguisti, ma che non può e non deve intaccare l’operazione politica di cui può essere protagonista.
Che cosa intendo dire? Che prima di risolvere l’anarchia politica di coloro i quali propugnano la difesa del territorio, occorre risolvere la disputa che nella Lingua Sarda vede il discorso delle “varianti” usate come giustificazione per esaltarne una sua presunta frammentazione e impedirne l’istituzionalizzazione. E’ l’Hotel Front della questione linguistica Sarda. Una frammentazione che finisce puntualmente per fare il gioco di quelle forze centraliste (e anche nel mondo accademico isolano non sono poche), le quali temono un indirizzo politico della questione linguistica. Il tutto mentre il lento ma costante processo di assimilazione italiana prosegue indisturbato, tanto che le nuove generazioni oggi appaiono pienamente integrate nel modello socio-culturale di uno Stato accentratore e avverso alla specificità culturale ed economica dell’isola (lo stesso indipendentismo vede nella sedicente frantumazione linguistica un ostacolo all’uso del Sardo).
In sintesi, la Sardegna non è l’Irlanda che appariva alla vigilia della sua indipendenza e neppure somiglia alle Colonie Americane che contestavano un regime fiscale iniquo alla Corona Britannica, da noi l’assimilazionismo linguistico contribuisce a consolidare ed accrescere l’identificazione della popolazione Sarda nella retorica del nazionalismo italiano (elemento coadiuvato da mass-media centralisti e da una Pubblica Istruzione tutt’altro che sensibile a questa problematica). In questo senso, in un preciso contesto come il nostro, il nazionalismo Sardo deve rendersi conto che la sola rivendicazione economicista, priva dell’elemento linguistico, potrebbe non essere sufficiente per la positiva riuscita di una collettiva rivendicazione degli interessi generali dell’isola (pensiamo all’esempio altoatesino).

E allora le domande che dovremmo porci sono: ma chi è l’avversario della Lingua Sarda e della Sardegna? L’adozione della LSC oppure la costante e preponderante invasione dell’italiano? Certamente quest’ultima.

In presenza di una koinè, i Sardi continuerebbero ad usare il proprio idioma conosciuto, con la differenza che vi sarebbero maggiori strumenti giuridici con cui tutelarlo e dargli continuità nel tempo per poterne arrestare l’erosione. In Catalogna decenni di politiche linguistiche mirate sono riuscite a salvare la situazione. In Sardegna è un processo politico già partito con le rivendicazioni del movimento linguistico di fine anni ’70, ed approdato nella legge regionale n. 26/97. Ma il problema che ravvisiamo nella 26/97 è che essa non tutela il Sardo in quanto diritto di un Popolo (e quindi di una precisa collettività), ma – nonostante lo ponga retoricamente sullo stesso piano dell’italiano – lo relega ad una mera espressione culturale dei Sardi (art. 1). In tal modo viene esaurita la necessità di normalizzare l’uso della lingua oltre il semplice ambito informale, ed il singolo cittadino Sardo può al massimo auspicare l’uso della Lingua Sarda in tutti gli uffici pubblici con cui venga a contatto, ma non può inquadrare l’eventuale assenza dell’uso della Lingua Sarda da parte dei pubblici uffici come una discriminazione che riguarda se stesso e tutta la comunità. Siamo in un contesto sociale, politico e legislativo nel quale il Popolo Sardo non vive la discriminazione in quanto tale. Al massimo, un sardofono che non trova la propria lingua in un qualsiasi ufficio pubblico vive il problema come un imbarazzo e non come un danno da denunciare (nel 2011 arrivammo a proporre una class action collettiva). Di conseguenza, quando all’interno di una società si allenta la consapevolezza sui propri diritti, vengono meno anche tutti i doveri istituzionali connessi alla libertà di poterli esercitare e dargli continuità nel tempo.

Ecco perché un malinteso senso libertario non deve farci perdere di vista quali sono i veri avversari, e quali sono quegli spazi di discussione in cui dobbiamo evitare una facile tendenza fratricida.

Opportuno dunque proseguire con una politica linguistica maggiormente incisiva (che non sia a discapito delle parlate correnti), che funga da formale e unitario ombrello giuridico-politico, e che trovi la sua naturale evoluzione all’interno di una riforma dello Statuto Autonomo della Sardegna. Ciò perché la libertà dell’individuo non consiste nel lasciarlo alla mercé dei poteri che lo dominano, ma far sì che anch’egli possa munirsi degli strumenti essenziali con cui promuovere la propria affermazione. Obiettivo che richiede assoluta coesione politica.

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos

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