Odissey dawn, economia e Sardegna: Appunti di analisi sul caso libico

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Il 4° comma del secondo articolo della Carta delle Nazioni Unite sostiene che i Paesi membri, nel quadro delle loro relazioni internazionali, devono astenersi dal ricorso alla minaccia ed all’uso della forza non solo contro un qualsiasi Stato sovrano, ma anche contro la sua indipendenza politica. Ciò significa che un governo, all’interno dei confini del proprio Stato, può amministrare il territorio in base ai suoi voleri, a prescindere dalla forma istituzionale dello Stato stesso. Per la prima volta, la risoluzione 1973 sulla Libia (vedi PDF-EN) interviene decisamente nel quadro della politica libica invitando i partner della regione ad applicare le disposizioni della 1973, tra cui l’imposizione di una no-fly zone (zona di interdizione aerea, eccetto voli umanitari) ed un embargo militare, oltre che il congelamento dei beni riconducibili all’establishment libico all’estero. Si tratta di una posizione più decisa rispetto all’ambiguità della 688 inerente la questione Iraq-Kuwait del 1991 e la successiva questione nella ex Jugoslavia. La nuova risoluzione tuttavia si orienta anche nel confermare che ogni sforzo diplomatico sarà condotto, per mano dell’inviato speciale del Segretario Generale dell’ONU, a garantire l’integrità territoriale della Libia, ponendo – oltre all’accento sulla partecipazione del mondo arabo all’azione (Qatar/UAE) – le basi di quella che in poche ore è divenuta la coalizione internazionale disponibile ad imporre una interdizione militare sul regime di Gheddafi, al fine di salvaguardare la popolazione civile dall’imminente attacco che le forze di Tripoli indirizzavano contro la città insorta di Bengasi.
Le domande dunque sono: si poteva aspettare? La coalizione internazionale si è mossa solo per interesse? Che futuro attende il Mediterraneo?
Alla prima domanda si può rispondere probabilmente di no, non si poteva aspettare. Le Nazioni Unite hanno ormai consolidato nel corso degli anni una drammatica esperienza in cui milioni di vittime potevano essere preventivamente salvate da ritorsioni e pulizie etniche avvenute dall’epoca della guerra fredda ad oggi. Pensiamo al Rwanda, od al tardivo ma necessario impegno sui Balcani.
Bisogna tuttavia considerare che la corruzione e gli atti di violenza (nel caso balcanico) furono in alcuni casi compiuti da mai chiarite complicità occidentali, verosimilmente in chiave destabilizzatrice. Come bisogna considerare che la serie di bombardamenti fin qui annunciati dai media occidentali del rais contro la sua popolazione sono stati frutto di montatura. Ciò non toglie che Gheddafi, piuttosto che assecondare le proteste popolari, ha innescato una vera e propria rappresaglia comunque sanguinosa nei confronti delle popolazioni insorte, minacce a cui l’occidente (per quanto distratto rispetto ad altre realtà prive di interessi economici) non poteva rimanere indifferente. Una indifferenza che non ha risparmiato la Germania di Merkel, che ha preferito prevenire i rischi politici di un coinvolgimento del suo Paese anteponendoli alla vita degli insorti libici, stessa linea di diversi paesi storicamente poco affini all’interventismo di matrice atlantica (euro-nord’americano).
Al secondo quesito, se vi siano o meno esclusivamente interessi economici, la risposta che possiamo dare è “in parte”. In parte perché è falso ritenere che, ad esempio la Francia, sottrarrebbe via all’Italia i contratti del gas fino a poco tempo fa operativi con Tripoli. Il motivo è molto semplice: l’unico gasdotto libico del Mediterraneo che fornisce la materia prima alla penisola ed al resto del continente europeo è il Greenstream di proprietà dell’ENI (e della libica NOC col 25% di partecipazione). E non può essere né espropriato (data la sua estensione geografica), né spostato. Per logica conseguenza, qualsiasi sia l’esito della crisi libica e qualsiasi governo Tripoli si ritroverà al comando, le esportazioni proseguiranno, perché si tratta di interessi comuni. Questa tipologia di trattati risponde al diritto internazionale e difficilmente tra Stati sono messi in discussione.
Ma a prescindere da ciò, lo stesso discorso potrebbe non valere per il petrolio. L’Italia sotto questo profilo potrebbe non preservare tutto il suo know out sviluppato nel corso degli anni da ENI in Libia nel campo delle estrazioni, ma, cinesi permettendo, le installazioni non verrebbero messe in discussione. Il volume energetico abitualmente importato da ENI si è aggirato attorno al 30% del traffico globale dell’ente idrocarburi italiano. Una perdita che, se per adesso ha penalizzato altre aziende italiane (e sono numerose), non ha comportato particolari problemi a quella del cane a sei zampe (come conferma l’andamento di Borsa) in quanto tale percentuale è stata rimpiazzata dall’import di altre località produttrici. Stesso discorso per il petrolchimico SARAS di Sarroch, abitualmente impegnato in campo libico con un 40% di importazioni.
Ma il problema per la Sardegna sotto il profilo dei costi energetici diverrà maggiore perché al prolungarsi della crisi sarà proprio l’Italia (più che Francia interventista o Germania astensionista) ad essere penalizzata: non dalla sospensione delle importazioni a data da destinarsi dalla Libia, ma dalla parallela richiesta di greggio che arriverà, secondo diversi economisti internazionali, dal versante giapponese, che con la crisi nucleare seguita al terremoto ed allo tsunami dovrà incrementare il suo import petrolifero, facendo variare al rialzo i costi del barile sul mercato. E l’Italia è fortemente dipendente dall’estero per il suo fabbisogno energetico. E’ evidente che come Sardi risentiremo della probabile corsa al rialzo dei prezzi essendo ostaggi di una tardiva politica energetica regionale che per adesso è riuscita a tenerci schiavi di alcuni oligopoli, quello petrolchimico di SARAS e quello della centrale di Fiume Santo (Porto Torres), senza differenziare l’offerta sul mercato (aspetto indipendente dall’eccesso di produzione energetica dell’isola), come la mancata metanizzazione della Sardegna. A ciò si aggiunga la perdita delle possibilità commerciali tra la Sardegna e la Libia (denunciate anche lo scorso mese dalla CGIA di Mestre, soprattutto in campo edile). Bisogna inoltre considerare che all’interventismo francese, a cui si è rapidamente associato quello britannico, non possono essere attribuite esclusive mire petrolifere, in quanto il volume dell’influenza di un Paese nell’epoca della globalizzazione non è dato solo dall’apporto energetico ma anche dal volume complessivo di esportazioni e scambi commerciali (grande distribuzione, vendita auto, banche, assicurazioni, etc). Come bisogna considerare che Sarkozy si trova nella fase finale del suo mandato alla guida della Francia e pertanto vi saranno svariati temi da campagna elettorale.
Essendo fallito il suo precedente tentativo di creare una Unione del Mediterraneo, l’Eliseo infatti non sembra placare le sue storiche mire d’influenza sul mondo arabo. E’ per queste ragioni che la Francia ha dovuto accettare l’arrivo della NATO, non tanto per le pressioni italiane, ma per gli altri due pilastri internazionali che, secondo forme diverse, si sono approcciate a questa crisi. Il primo riguarda gli USA, che non hanno fatto mancare la più tradizionale regola non scritta del “diritto di prelazione” internazionale su un territorio: la partecipazione militare, ma contemporaneamente (come ha dimostrato l’apparizione televisiva di Obama mentre giocava a pallone) la Casa Bianca ha lanciato il messaggio che non si impegnerà in ciò che tutti temono di più e che ha spinto anche la Germania ad abbandonare gli insorti libici al proprio destino: l’intervento di terra, non appena sarà evidente l’inutilità della misura delle no-fly zones in terra libica. Ragion per cui è verosimile che potrebbero essere gli stessi insorti, muniti di armi dalla NATO, a costituire la forza di terra nel caso di una avanzata contro i lealisti di Tripoli. L’unico aspetto fin’ora condiviso nella coalizione internazionale è che la permanenza di Gheddafi (che sembra non voler cedere il timone) sarebbe la variabile più complessa da gestire. Soprattutto perché non è affatto un “cadavere politico” come lo definì la Russia (pur astenendosi dal voto nella risoluzione 1973) ma gode di ampi consensi presso la sua popolazione, con le tribù contigue al suo regime. Il secondo pilastro è dato dalla Turchia, Paese ponte con gli alleati arabi, che condiziona la natura dell’intervento NATO anche in funzione di un contenimento della Francia. Parigi infatti è uno dei primi ostacoli all’influenza turca su una parte del Maghreb ma anche il primo ostacolo dell’adesione di Ankara all’UE. La Turchia è dunque l’unico interlocutore credibile che potrebbe determinare sensibili variabili nel complesso gioco diplomatico in corso e sui bombardamenti, che sono limitati, osteggiati dalla Lega Araba, ma che consentono comunque a Gheddafi di non interrompere il suo tentativo di stabilizzare sotto il suo controllo quante più aree possibili, nella speranza di rimanere in sella al potere. Strategia giocata anche durante le trattative ONU per la risoluzione 1973 in cui il rais ha vanamente cercato di utilizzare il peso politico dell’Italia per evitare l’intervento militare sulla Libia.
La NATO, oggi braccio motore dell’ONU, è divenuta quindi l’unica struttura capace di dare un ruolo realmente condiviso tra i vari partecipanti della coalizione ad una missione dagli esiti imprevedibili.
Alla terza domanda possiamo dunque “rispondere” aggiungendo altre domande: nascerà un nuovo Stato con epicentro nella Cirenaica qualora gli insorti non avanzassero come forza di terra? Quanto durerà lo stallo? La Turchia avrà un peso sulle decisioni di Gheddafi? L’embargo militare che vede protagonisti altri Paesi africani verrà rispettato? Ci sarà un nuovo programma “oil for food” come quello instaurato dall’ONU in Iraq dopo la prima guerra del Golfo? Seguiremo gli sviluppi.

Certamente, più si dilateranno i tempi, più aumenteranno i malumori, con gli annessi rischi, non di rappresaglia militare, ma di terrorismo (anche a carico delle nostre rotte commerciali). Mentre per le basi Sarde, i nostri militari di U Erre Enne, membri delle Forze Armate italiane, confermano la massima tranquillità. La Sardegna avrebbe comunque avuto un ruolo nel compartecipare all’impegno per la difesa dei diritti umani in Libia (ed anche per la stabilizzazione e lo sviluppo dei nostri interessi), ma sicuramente sarebbe puerile tirarsi indietro nello stabilire se in Sardegna debba arrivare una quota di fuggiaschi libici o tunisini, non è pensabile selezionare ed apporre veti a migliaia di persone in fuga dai teatri di crisi come ha fatto qualche politico regionale. Dobbiamo fare la nostra parte, pur nel quadro delle 2000 persone ospitabili, un numero modificabile, ma indipendentemente dalla nazionalità di provenienza. Nel complesso, osserviamo che l’ONU è uno strumento utile ma da riformare, il meccanismo del diritto di veto delle grandi potenze è anacronistico ed anti-democratico, non meno dell’Unione Europea, ancora ostaggio dei particolarismi politico-economici tra Stati membri.

Grazie per l’attenzione.

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Di Bomboi Adriano e Melis Roberto.

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U.R.N. Sardinnya NETWORK – Nazionalisti Sardi

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