Dallo studio dell’economista Pigliaru all’indipendentismo: il decentramento paga?

Sul sito “La Voce”, gestito dall’economista Tito Boeri ed altri colleghi, è stato pubblicato un articolo firmato da Francesco Pigliaru e Luciano Mauro dal titolo intrigante: “Il decentramento? Funziona se c’è anche capitale sociale”.
Lo studio tende ad evidenziare quanto, in termini generali, l’applicazione del decentramento non abbia sempre offerto quelle risposte di crescita previste dalla letteratura classica in materia di federalismo.
L’articolo si chiude con una equilibrata e condivisibile osservazione: “Decentrare a favore di aree con istituzioni locali più efficienti di quelle centrali è una scommessa facile da vincere; farlo a favore di aree in cui le istituzioni locali funzionano male è un azzardo che può avere un costo molto alto”. Insomma, se piove e non si è coperti, si rischia di bagnarsi.
Niente da eccepire al riguardo, se non fosse per le premesse con cui si viene introdotti alla lettura dell’articolo e che celano il background politico che spinge il buon lavoro di Mauro e Pigliaru. Gli autori infatti affermano: “Che spesso le Regioni italiane non siano un buon esempio di efficienza è sotto gli occhi di tutti. La proposta del Governo Monti di mettere mano alla riforma del Titolo V° è il risultato della crescente consapevolezza che il meccanismo di decentramento disegnato da quelle norme funziona male. Lo ha riconosciuto qualche giorno fa anche Giuliano Amato, che pure guidava il Governo quando la riforma fu approvata”.

Cerchiamo quindi di capire, lo studio non esclude che aree con istituzioni locali efficienti potrebbero produrre un decentramento dotato di buoni risultati, mentre le altre no, in quanto non avrebbero il capitale sociale necessario a sprigionare le nuove competenze cedute dallo Stato centrale agli enti periferici beneficiari.
E’ vero che la riforma del Titolo V° della Costituzione Italiana, poco meditata, non si accompagnò ad una seria e organica strutturazione capace di fornire quegli elementi di responsabilità condivisa, contribuendo persino a rallentare i processi decisionali (pensiamo alla labirintica sovrapposizione di competenze nei rapporti Stato-Regione), con – tra l’altro – un federalismo fiscale giunto tardi e male. Ma l’alternativa proposta qual è? Migliorare e potenziare la struttura federale dello Stato?
Macché, si citano Giuliano Amato e il neo-centralismo montiano come esempi con cui ritentare la carta della convergenza economica per ridurre il divario (e la scadente coesione sociale) del Paese.

Passiamo quindi dalla teoria alla pratica con riferimento alla Sardegna, Giuliano Amato in un passaggio del suo intervento sul Sole 24 Ore affermava: “è mia convinzione che la nave delle nostre autonomie (regionali o federali che siano) è finita sugli scogli non tanto per l’eccesso, che pure c’è stato, delle competenze loro attribuite, quanto per lo spirito che troppo spesso ne ha segnato l’esercizio, […] la vera e propria ubris appropriativa nella gestione dei mezzi finanziari a disposizione”.

Ebbene, in Sardegna è successo esattamente l’opposto. E non è una novità: le classi dirigenti centraliste al governo della Regione infatti non hanno solo l’annoso problema di non riuscire a programmare tutta la liquidità a disposizione, ma anche di non esercitare le prerogative di cui dispongono. Non a caso oggi il comitato del Fiocco Verde si è dovuto impegnare attraverso 25.000 firme popolari affinché si arrivi ad una Agenzia Sarda delle Entrate distinta da quella dello Stato centrale. Questo succede poiché non si può più dare credito ad una classe politica – la cui assenza di vigilanza, altro che “ubris” – ha contribuito a generare il debito della vertenza entrate (pensiamo all’art. 8 dello Statuto Autonomo) che lo Stato non pare avere serie intenzioni di restituire. In quest’ottica dunque il decentramento non solo è opportuno, ma assolutamente necessario. Autonomismo e indipendentismo puntano alla sovranità in materia di riscossione fiscale come primo step con cui, a seguire, le riforme dovrebbero portare alla piena sovranità fiscale. Vale a dire potenziando anche la sfera dei criteri di imposizione fiscale. Solo a seguito di questo processo Pigliaru e Mauro potranno dirci se la responsabilizzazione della gestione finanziaria decentrata (Putnam, 1993) sia ottimistica o meno in termini di risultati.
Generalizzare un contesto eterogeneo come l’Italia del resto è un esercizio praticabile ma poco opportuno. Perché se svolgessimo uno studio fra le autonomie più avanzate del nord e quelle meno performanti del meridione, come la Sicilia, magari noteremo che il capitale sociale si muove al ribasso proprio quando si gioca la carta dell’omologazione economica e culturale col centro rispetto a chi, come il Trentino-Alto Adige/Sudtirol, fonda proprio nella sua alterità culturale il perno giuridico (e sociale) con cui tutelare i propri interessi economici.

Infatti, anche in una realtà come quella Sarda, palesemente omologata e subordinata al centro, il decentramento non funziona a dovere nel momento in cui – come in quasi tutte le Regioni italiane – esso viene gestito da un ceto centralista poco attento alle specifiche esigenze del suo territorio.

Il tema dello sviluppo del capitale sociale è uno dei fondamenti del sovranismo contemporaneo, in quanto interpreta il suo ruolo sulla base della formazione del singolo cittadino: studio della storia territoriale, della geografia, della propria lingua e di altre lingue, nonché il potenziamento generale dell’offerta formativa, sono alcuni dei punti programmatici con cui diverse forze indipendentiste e autonomiste ritengono di poter colmare il divario culturale che oggi impedisce alla popolazione di maturare una efficiente organizzazione sociale capace di sfruttare al meglio un decentramento amministrativo, fiscale e politico in generale.
Proprio lo scorso 5 novembre il quotidiano La Nuova ha offerto un esempio di quanto sia bassa la qualità e la competenza della formazione del singolo cittadino, del singolo imprenditore e del ceto amministrativo stesso in relazione alle nostre istituzioni. Pensate, la storica soprintendente ai Beni archeologici di Nuoro e Sassari ha affermato che per valorizzare l’indotto turistico “non basta posizionare dei tavolini di plastica nei pressi di un nuraghe”. Non c’è da stupirsi, un Popolo che in una Pubblica Istruzione centralista non studia la propria storia può essere lo stesso Popolo che può valorizzare il territorio e quindi istituzioni calibrate sulla base dei rispettivi interessi territoriali? Evidentemente no, perché non li conoscono e non sono formati ad affrontare questa sfida. Il ritardo in tal senso dunque non è stato determinato solo dalla mancanza di risorse che in passato accompagnava la scolarizzazione di tutti i giovani cittadini dello Stato, ma, successivamente, anche dal tipo di formazione che hanno ricevuto, tendenziosamente destinata all’assimilazionismo ideologico, linguistico e culturale.

Proprio nel dibattito coi moderati Sardi abbiamo visto come i governi post-unitari seguiti al risorgimento abbiano già coltivato in partenza il seme del divario economico. A partire dall’organizzazione dello Stato, non federale (come auspicava Cattaneo), e come sostenuto oggi dall’economista Vito Tanzi nell’analisi delle finanze pubbliche (Tanzi, 2012), ma assolutamente centralista. “Tutto il sistema scolastico, sanitario, dei lavori pubblici, ecc. segue lo stesso modello centralistico, la pubblica amministrazione viene organizzata al suo interno secondo schemi gerarchici piramidali che lasciano ben scarsa autonomia ai suoi stessi agenti” (Romanelli, 1995).

Se quindi con alcuni economisti ci troviamo d’accordo sulla diagnosi del problema, discordiamo assolutamente sulle cause e soprattutto sulla terapia. Che non è sicuramente quella di proseguire nel binario morto della verticalizzazione economica e culturale verso il centro. Probabilmente la causa principale dei ritardi socio-economici.
Non a caso in quasi tutte le osservazioni e le analisi di vari economisti e politici italiani, non compare mai il tema delle minoranze nazionali. Ovvero dell’eterogeneità culturale di cui è formata la Repubblica. Al contrario, le si pone in secondo piano, annullandone persino i legittimi diritti civili, e/o contribuendo proprio attraverso l’imposizione di standard centralistici al loro progressivo indebolimento. Questo recondito nazionalismo italiano dunque porta unicamente al disastro economico di cui loro per primi si lamentano, magari derubricando al rango di “campanilismi” le legittime rivendicazioni economiche di uno specifico territorio, e chiamando “folklorismo” i diritti di una minoranza nazionale, declassandone persino la lingua in qualità di “dialetto”. Ecco perché uno Stato la cui unità è garantita solo dall’espansione del debito pubblico non sarà mai in grado di distinguere le ragioni strutturali della crisi interna, né quindi saprà affrontare con decisione anche quella internazionale.

Ed è proprio a questo barbarico conformismo che bisogna opporsi. Diciamo si ad un federalismo multinazionale. Si alla sovranità. Si all’indipendenza.

Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Nazionalisti Sardi

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