Economia, lingua e dispersione scolastica? Ministro Trigilia: ‘La politica modella il capitale sociale’

Diversi mesi fa, l’economista Francesco Pigliaru scriveva un articolo nel quale presentava l’esito degli studi sulla mancata convergenza economica fra le Regioni. L’autore segnalava quanto il processo di sviluppo avviato nel secondo dopoguerra si sia arrestato con il varo del regionalismo attorno agli anni ’70, lasciando quindi irrisolto il divario nord-sud del Paese. La spiegazione? Il decentramento, applicato da Regioni munite di scarso capitale sociale, ha guidato male le nuove competenze amministrative acquisite, e dunque, al posto di produrre ricchezza, queste l’hanno consumata. Viceversa, Regioni con un maggior capitale sociale (come quelle del nord-Italia) hanno ottenuto risultati economici positivi. Nell’analisi di Pigliaru mancava la valutazione dell’alterità linguistica e culturale di alcune Autonomie come fattore di costruzione ed evoluzione del capitale umano, a sua volta necessario per costruire quelle reti sociali in grado di esaltare la gestione della policy amministrativa ed economica del territorio. Non bisogna solo comunicare fra i propri simili o studiare per saper fare impresa o amministrare, ma anche poter studiare in modo accessibile e comprensibile alla propria lingua. Proprio in ragione di questi fenomeni, notiamo che dagli anni ’70 in poi una realtà come l’Alto Adige si evolve, mentre la Sardegna arresta la sua lenta uscita dalle tenebre, cui il secondo dopoguerra aveva fornito molte speranze. Secondo il linguista Roberto Bolognesi, ciò si è determinato grazie alla “scolarizzazione di massa, con l’emigrazione di un terzo dei Sardi, la campagna militare e mediatica contro il “banditismo” e la susseguente – e conseguente – adozione dell’”italiano”, da parte dei genitori, nell’allevamento dei figli. […] Il rifiuto della propria lingua nel rapporto con i propri figli stava per il rifiuto di tutta la propria identità sarda, associata, come attestato dal rapporto Euromosaico, all’arretratezza sociale ed economica”.
Il filosofo della scienza Silvano Tagliagambe, intervenuto nello spazio di Vito Biolchini, ha confermato che l’identità è un fattore importante nello sviluppo del capitale sociale e bisognerebbe pertanto abbandonare uno schema di gestione del territorio che tende a calare dall’alto le soluzioni, estromettendo l’identità delle popolazioni locali dalla partecipazione a questo processo.

Notiamo quindi un differente approccio fra Alto Adige e Sardegna nella gestione della propria Autonomia: se nello stesso arco di tempo la prima fornisce copertura legale al proprio status di minoranza linguistica (Sa Natzione, 01-06-13) e modella la sua economia sulla base delle caratteristiche ambientali e culturali locali, viceversa, la Sardegna eradica la propria identità e tenta la carta dell’omologazione assoluta col centro, imponendo persino ricette industriali in netto contrasto con le caratteristiche del nostro territorio (pensiamo ai cosiddetti “Piani di Rinascita”, a suo tempo varati anche grazie all’apporto del Partito Sardo d’Azione, completamente “italianizzato”, a differenza del suo omologo altoatesino).
Ma siamo sicuri che sia la supposta mancanza di capitale sociale ad aver determinato il nostro ritardo rispetto ad una eccellenza autonomistica come l’Alto Adige?
Probabilmente il problema risiede solo nel capitale umano. Il sociologo Carlo Trigilia, attuale ministro per la coesione territoriale nel Governo Letta, ricordava che per capitale sociale si intende una qualsiasi rete di relazioni destinata a produrre vantaggi ai membri del circuito che la compongono (2001), in questo senso, come osservavano anche Sandefur e Laumann (1998), il capitale sociale non è che un concetto situazionale e dinamico, che varia da contesto a contesto (Piselli, 2001), la criminalità organizzata non è che un classico esempio di questa tipologia di reti: vantaggiosa per gli affiliati ma svantaggiosa per la collettività. Allo stesso modo, vari studiosi seguiti a Banfield (1958) hanno mostrato che anche nel meridione italiano è presente un vasto capitale sociale che si alimenta grazie alla componente clientelare, ma a tutto svantaggio di una prospettiva più ampia di crescita. Nel merito Trigilia ha osservato quanto sia proprio la politica a plasmare il capitale sociale e non viceversa, in relazione alla formazione di quello umano. Ad esempio, politiche assistenziali tenderanno a far dipendere il soggetto – non dalle sue individuali capacità di sviluppo in relazione con gli altri membri della sua comunità – ma dal diretto o indiretto accesso all’aiuto pubblico (e quindi alla sua auto-sussistenza) derivante dalla sua rete di conoscenze politiche. Ci si ricollega pertanto ad una delle ragioni fondanti con cui abbiamo inquadrato la natura dello Stato-nazione italiano (Sa Natzione, 01-05-13), munito di strutture centralistiche, con un’ampia e farraginosa pletora burocratica ed amministrativa, a sua volta incisiva nella determinazione del debito pubblico (Tanzi, Schuknecht, 2007). Pensiamo alla disinvolta gestione della Sanità, od alle politiche di austerity che, al posto di far fare una cura dimagrante al settore pubblico, la impongono a quello privato, già oltremodo vessato dalla sfavorevole congiuntura economica internazionale, con tutte le distorsioni che ne conseguono. Si tratta di un sistema che, in termini generali, non premia il virtuosismo ma la rendita di posizione (quasi una sorta di evoluzione verticistica su scala “nazionale” del “familismo amorale” descritto da Banfield).
In quest’ottica, le interpretazioni del capitale sociale seguite a Coleman (1990), come ad esempio quelle di Putnam (1993) e Fukuyama (1995) – che cercavano nel substrato culturale locale le ragioni del percorso intrapreso dal capitale sociale – ci forniscono l’aggancio per capire la povertà del nostro capitale umano, la cui capacità di creare reti destinate allo sviluppo collettivo è inficiata alla base dall’azione di istituzioni e scelte politiche completamente dissonanti rispetto alle nostre originarie caratteristiche territoriali. Ecco quindi che Roberto Bolognesi insiste sulla necessità di formare il capitale umano della nostra isola sulla base della lingua Sarda, in quanto la sua assenza contribuirebbe (e qui sollecitiamo uno studio approfondito al riguardo) alla dispersione scolastica presente nel nostro territorio. Opportuno capire se in tutte le Regioni autonome in cui è presente una minoranza linguistica i tassi di dispersione scolastica siano alti, come sembrano suggerire alcuni dati statistici parziali. Non a caso, a fronte dell’esiguo numero di studenti Sardi che hanno terminato il proprio ciclo di studi ed hanno conseguito un titolo, non abbiamo ancora colpevolmente stabilito quanti e quali danni abbia prodotto l’introduzione sistematica dell’italiano nel nostro tessuto sociale e la conseguente e progressiva eradicazione del Sardo, ormai affacciatasi anche nel registro informale della comunicazione della nostra comunità.
In merito a questa necessità, Tagliagambe faceva notare il naufragio del progetto di introduzione del Sardo nelle scuole presente nel piano Semidas-Scuola digitale (su cui, guarda caso, la politica ha la principale responsabilità). E noi ci aggiungiamo volentieri la colpevole assenza della politica dall’annoso dibattito sulla standardizzazione del Sardo, cui solo l’unitarietà giuridica derivante dallo status di minoranza linguistica può consentirci di razionalizzare la formazione del capitale umano e, naturalmente, di solidificare le basi stesse su cui era nata la nostra Autonomia regionale (oggi a rischio).
In questo senso, la recente analisi di Lilli Pruna sul mercato del lavoro in Sardegna rischia di essere incompleta se non si valutano gli effetti di una condotta politica statalista e di una scuola centralista in rapporto alla scarsa formazione del nostro capitale umano, che quindi non matura un capitale sociale destinato a potenziare i propri livelli occupazionali in rapporto alle proprie caratteristiche ambientali (ma le reti si stabilizzano, come nel suddetto caso meridionale, in veste esclusivamente tradizionalista, clientelare ed assistenziale).
Oggi, una branca dell’economia, quella della conoscenza, evidenzia lo stretto legame fra le capacità di sviluppo ed il livello formativo dell’individuo (che se evidentemente gli viene imposto con una lingua aliena al suo contesto, diventa più difficoltoso). Stando alla definizione offerta da de la Fuente e Ciccone in una relazione del 2002 alla Commissione Europea, un capace capitale umano “contribuisce ad accrescere il prodotto pro-capite, sia direttamente, sia attraverso miglioramenti organizzativi, gestionali e un più alto tasso di innovazione tali da innalzare il trend di crescita della produttività del complesso dei fattori utilizzati nella produzione” (Human capital in a global and knowledge-based economy, 2002). Visco e Cipollone hanno incalzato la definizione con la seguente valutazione: “Il primo effetto è stimato nell’ordine del 5%; un aumento, cioè, del capitale umano equivalente a un anno di istruzione in più per la media dei lavoratori, comporta un aumento del prodotto pro capite del 5%. Si tratta di un effetto di livello e implica che un Paese che voglia aumentare la produttività deve continuare ad accrescere il proprio capitale umano (2007).

A questo punto qualche lettore potrà farsi la domanda: “Va bene, studiare permette di migliorare i fattori che creano occupazione, ma anche se migliorassimo il mercato Sardo grazie alla lingua Sarda…che relazione potremmo sviluppare con la moderna globalizzazione?”

Come ogni processo storico, ci sono vantaggi e svantaggi. Da un lato, finita l’epoca fordista e keynesista (benché quest’ultima ancora pesantemente presente in varie sue forme), abbiamo una produzione globale estremamente differenziata. Se da un lato le grandi aziende delocalizzano, dall’altro in occidente non svaniscono invece quelle realtà in cui la specializzazione del capitale umano è elevata. Per fare un paragone, in tempi in cui si delocalizza verso oriente (a favore di classi lavoratrici prive di una formazione professionale specialistica), Europa, nord America e Giappone continuano a tenere aree di solida competitività derivante dal know-how di cui è fornito il proprio capitale umano, mentre risultano assolutamente non competitive quelle realtà dell’occidente dove l’allocazione aziendale non richiede massa numerica a basso costo ma specializzazione. La Sardegna quindi presenta manifesti ritardi proprio per la sua incapacità di intercettare e/o di sviluppare posizioni occupazionali specialistiche a fronte di una offerta del lavoro che nei Paesi emergenti invece ha costi notevolmente inferiori. Perché investire in Sardegna quando si può investire altrove a costi più bassi? O come avviare eccellenze locali capaci di aggredire il mercato nel campo dell’agroalimentare, del turismo, del patrimonio storico-archeologico, delle manifatture in generale, se con la nostra pubblica istruzione centralista non stiamo formando il nostro capitale umano a tale scopo? Se il Sardo può limitare la dispersione scolastica, esso deve necessariamente essere accompagnato all’italiano ed all’inglese, pena l’assoluta mancanza di competitività dei nostri giovani, dei nostri imprenditori e, in buona sostanza, del nostro stesso futuro.

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos

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    11 Commenti

    • E infatti non a caso nel Progetto Semidas- Scuola digitale, di cui ero direttore scientifico, i materiali digitali per tutte le discipline e per tutti i livelli scolastici (dalle elementari alle scuole secondarie superiori), la cui produzione era stata messa a gara con il bando poi inspiegabilmente revocato, erano previsti in sardo, italiano e inglese.

    • Il lassismo e l’oscurantismo di questa classe politica si commentano da soli!

    • [...] Roberto Bolognesi mi ha parlato dell’ipotesi di istituire un Assessorato alla Lingua Sarda, utile anche all’economia dell’isola, la prima cosa che ho pensato di rispondergli è stata: “Immagina che carrozzone clientelare ne [...]

    • [...] evidenti su tutti i fronti. Pensate che in Sardegna, mentre timidamente riteniamo che esista un legame fra l’assenza del Sardo nelle scuole e la dispersione scolastica, l’Alto Adige, tramite l’SVP, dopo decenni di plurilinguismo degnamente riconosciuto sul piano [...]

    • [...] investono in infrastrutture, Stati che non investono in formazione (e che addirittura alimentano la dispersione scolastica), e Stati che fingono di liberalizzare il mercato. L’assenza di questi presupposti produce [...]

    • [...] stessa è competente? Si intende riformare lo Statuto Sardo? Che orientamento si vuole tenere sul problema della dispersione scolastica e della lingua Sarda? Su questo tema, quasi tutte le 13 sigle autonomiste e indipendentiste Sarde non hanno una [...]

    • [...] stessa è competente? Si intende riformare lo Statuto Sardo? Che orientamento si vuole tenere sul problema della dispersione scolastica e della lingua Sarda? Su questo tema, quasi tutte le 13 sigle autonomiste e indipendentiste Sarde non hanno una [...]

    • [...] – Vedere anche: Economia, lingua e dispersione scolastica? Ministro Trigilia: ‘La politica modella il capitale soc…. [...]

    • Da perfetto ignorante di tutto ciò di cui parlate, non capisco come dalle premesse si possa arrivare a certe conclusioni. Il discorso in soldoni mi sembra questo: l’istruzione centralizzata fa schifo e non centra nulla con il nostro territorio. Come risolviamo il problema? La manteniamo ma ci aggiungiamo il sardo in modo che più sardi e più a lungo partecipino a questa istruzione centralizzata che fa schifo e non centra nulla con il nostro territorio.

    • Non si tratta di aggiungere solo il Sardo ma di studiare anche la storia, la geografia e la letteratura Sarda, oltre ad un potenziamento delle lingue straniere e, in generale, del modello organizzativo stesso dell’istruzione regionale. Dunque qualcosa di più articolato.

    • [...] dalla Sardegna, ma poco attento alle cause che determinano il persistere dei problemi. Sul piano economico, sappiamo che oggi i maggiori investimenti si spostano verso aree del globo dove il costo del [...]

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