Cosa produrre in Sardegna?

Il sindaco di Fonni suggerisce “meno petrolio, più prodotti commestibili”, i dati però ci suggeriscono “meno pecore, più ingegneri”.

Qualche considerazione sulla pubblicazione della classifica delle maggiori aziende sarde per volume di fatturato.

Di Adriano Bomboi.

Questo intervento nasce dalla riflessione di Daniela Falconi, sindaco e imprenditrice agroalimentare di Fonni.
Scrive Falconi, sostanzialmente, dopo aver osservato la classifica delle maggiori aziende sarde, con in testa il petrolchimico Saras, che si potrebbe investire di più e meglio nel settore agroalimentare, e che inoltre servirebbe una compensazione fiscale per le aziende operanti nelle aree rurali, anche al fine di limitare il fenomeno dello spopolamento interno.

Sarebbe questa dunque la strada maestra da seguire?

In parte si, ma soprattutto no, per diversi motivi.

Se intendiamo ragionare in termini di PIL e di ricchezza prodotta, per osservare lo stato di salute del “sistema Sardegna” e capire su cosa investire, guardare la sola classifica del fatturato delle aziende è un esercizio fuorviante. Bisogna osservare anche altri parametri, ad esempio: in che settore è cresciuto maggiormente il valore aggiunto nella ricchezza prodotta delle aziende sarde?
Ebbene, nel periodo antecedente alla pandemia, notiamo che in agricoltura, silvicoltura e pesca abbiamo appena un +1,7%; mentre nell’industria in senso stretto un +2,7%; nelle costruzioni un +3,7% e nei servizi un +4,7% (Dati Centro Studi e Ricerche SRM/ISTAT 2018).

Che cosa significa?

Che in rapporto al tempo, al lavoro, alle risorse e ai soldi che abbiamo impiegato nei vari settori, l’agroalimentare è proprio quello che offre una crescita inferiore a tutti gli altri. Inoltre è anche il settore maggiormente sussidiato dalla spesa pubblica.
E questo, badate bene, non avviene solamente in Sardegna. O solamente nelle isole. Da tempo la letteratura economica suggerisce che la crescita della ricchezza è maggiore laddove si investe in innovazione, e soprattutto in professioni ad alto valore aggiunto.

L’idea che i sardi possano crescere, accrescendo il settore agroalimentare, è un’idea suggestiva e alquanto radicata nella nostra storia, nella nostra politica, nei nostri intellettuali e in generale nella nostra società, che però non ha riscontri oggettivi. Un po’, in senso lato, come avviene per l’intera Italia, in cui tanti pensano, a torto, che l’export principale del paese riguardi i prodotti agroalimentari (come Barilla, Parmigiano, ecc.), mentre invece riguarda la chimica, la meccanica, la farmaceutica, i prodotti derivanti da manifatture specializzate, ecc.

Per averne una ulteriore conferma è sufficiente osservare i dati della bilancia commerciale sarda, esclusi i prodotti petroliferi, al secondo posto abbiamo export di prodotti chimici (pensate ad aziende come la Masnata Chimici di Elmas) e al terzo di prodotti siderurgici (pensate ad aziende come la Bekaert di Assemini). O nel settore dei servizi tecnologici, pensate a Tiscali.

Insomma, per quanto l’agroalimentare sardo abbia validissime aziende, con in testa la 3A Arborea, o pensiamo all’export della monocultura del Pecorino Romano, e per quanto il settore sia una voce importante del nostro PIL, che può crescere ancora e cooperare di più, non è però quella trainante.

Daniela Falconi richiamava poi anche un altro argomento: le compensazioni fiscali per le aziende delle aree interne dell’isola. Questo in Italia è un argomento molto duro da affrontare, perché non viviamo in un paese federale. Uno degli ordinamenti istituzionali che avrebbe fatto al caso nostro è indubbiamente quello svizzero, per una ragione fondamentale: possiede una struttura asimmetrica.

Cosa significa?

Che ogni singolo territorio della Confederazione può sviluppare un fisco adatto alle sue caratteristiche. Il che implica che le aree rurali potrebbero determinare un fisco più agevole per le aziende operanti in aree lontani dalle coste, e maggiormente penalizzate per altri motivi (motivi comunque da affrontare), come i costi energetici e i ritardi infrastrutturali.

Quest’idea venne introdotta per la prima volta in Sardegna dal sottoscritto nel 2014 tramite il lavoro con la Condaghes, inerente un progetto generale di riforma dell’indipendentismo (che come noto è rimasto più nei meandri della fantapolitica che sul piano di una sua concreta applicazione, stante l’assenza di sigle politiche interessate a portare avanti credibili proposte per la riforma delle nostre istituzioni).

In conclusione, dobbiamo infine ricordare che non spetta alla politica stabilire che cosa dovrebbe produrre un determinato mercato, ma al mercato stesso, che va liberato il più possibile da burocrazia, interventismi e assistenzialismi vari.

Compito della politica è semmai quello di stabilire degli indirizzi affinché la popolazione migliori la propria istruzione e affinché, nel tempo, si ottenga una sana diversificazione dell’economia del territorio. Magari orientandosi maggiormente verso settori ad alto valore aggiunto, vera sfida di un futuro da cui altrimenti saremo tagliati fuori.

(Sul tema consiglio il testo: “Problemi economico-finanziari della Sardegna“, Condaghes, 2019).

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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