Turismo: quali strategie adottare dopo la stagione 2019?

Turismo: l’assessore Chessa ferma la DMO e sostiene golf e ampliamento degli alberghi senza nuove volumetrie, ma i dati, il trend del mercato e Confindustria suggeriscono spazi per strategie più coraggiose che solo l’assessorato all’urbanistica può avviare.

Facciamo il punto della situazione, osservando la struttura della nostra offerta, alla luce di due insidie che proprio l’assessorato guidato da Quirico Sanna troverà nel suo percorso.

Di Adriano Bomboi.

In un’epoca di semplificazioni, anche il dibattito politico sul turismo regionale appare segnato da confusione e omissioni che finiscono per viziare alla base ogni concreto piano di sviluppo. Osservare i dati rimane l’unico antidoto all’approssimazione, grazie ai quali torneremo su alcuni concetti già esposti in questa sede.

Un primo elemento da commentare riguarda, indubbiamente, lo stop dell’assessore Chessa al progetto DMO (per i meno esperti, trattasi di organizzazione tesa a promuovere una destinazione turistica). A differenza di quanto afferma Federalberghi, le DMO sono prodotti degli anni ’80, sorte in un contesto molto diverso da quello attuale, dominato invece da internet, con Google e piattaforme quali Booking.com, et similia. Le DMO attuali non riescono ad interfacciarsi sempre con successo al mercato, in quanto, secondo gli esperti, presentano indicatori di efficienza superati. E si avvalgono di un approccio “top-down” a fronte di uno scenario estremamente più articolato. Per esempio, il mercato oggi predilige una formula consumer focus e poco product focus. Vale a dire, l’imprenditore turistico deve tenere conto della domanda, mentre l’offerta non può limitarsi a proporre generiche formule prive di profilazione degli utenti. Traduzione pratica: chi viene per il mare non è interessato ai nuraghi, e viceversa, benché siano entrambi segmenti ricettivi da sviluppare ma per motivi diversi qui lunghi da riassumere. E chi viene per il mare vuole strutture vicine al mare ed è interessato solamente a determinati servizi. Lo studio delle dinamiche dell’outgoing mostra inoltre preferenze difformi dei consumatori in base ai Paesi di provenienza. Ad esempio, l’ENIT ci informa che i turisti austriaci, a differenza dei tedeschi (dalle preferenze più eterogenee), scelgono per l’82% strutture di fascia medio-alta e villaggi turistici. Non b&b, né seconde case. La politica non può ignorare questa evoluzione del mercato, né gli ambientalisti radicali che propongono solamente un modello di piccolo albergo diffuso, mentre gli albergatori non dovrebbero confondere la promozione della propria attività con quella del territorio (scaricandone i costi sui contribuenti). L’annullamento del progetto DMO intrapreso dalla giunta Pigliaru non va dunque considerato in termini del tutto negativi. E appaiono impropri anche i paragoni dei suoi sostenitori con altre realtà che si avvalgono di questo strumento, il cui lavoro può essere comunque svolto da una cabina di regia dell’assessorato al turismo, risparmiando milioni di euro. In quanto non esiste un modello universale di DMO adattabile ad ogni contesto.

Ma qual è l’offerta della Sardegna?

Come noto, questa non si compone unicamente dai trasporti (di cui abbiamo più volte parlato), perché, a differenza di quanto sostengono i meno esperti, dipende dalla natura di infrastrutture e servizi del territorio.
Uno dei temi più importanti e più ignorati del dibattito sulla ricettività riguarda proprio questo aspetto, pensate al luogo comune secondo cui: “non ci servono nuovi alberghi perché quelli attuali sono spesso semivuoti”.
Ciò che nessuno vi spiega è: perché sarebbero “semivuoti”? Quante e quali strutture alberghiere abbiamo nell’isola?

Al 2017 (dati R.A.S.), abbiamo appena 918 hotel. Di cui soli 30 a 5 stelle (e luxury); 276 a 4 stelle; 410 a 3 stelle; 86 a 2 stelle e 34 ad 1 stella. Seguono 82 residenze turistico-alberghiere.
Il tutto pari a 109.659 posti letto (rispetto ai 102.166 del ramo extralberghiero).

Qual è invece la domanda del mercato?

Come informano i più autorevoli studi, tra cui il rapporto Horwath HTL Italia 2018, e la Confindustria Sardegna (che sostiene un’espansione degli hotel), il pubblico predilige strutture di fascia medio-alta (da 4 stelle in sopra), mentre si registra un calo di tutte le altre.

Conclusioni?

In estrema sintesi, buona parte della nostra offerta alberghiera è disallineata rispetto alla domanda, dunque non competitiva. Abbiamo tante eccellenze ma ancor di più strutture obsolete, costose e fuori mercato, anche difficilmente recuperabili secondo i moderni standard ricettivi. Persino il Forte Village di Pula, una di queste eccellenze, pare non avere un centro congressi a misura di disabili.
Nel ranking riportato dal Regional Tourism Reputation Index 2019, che include le preferenze degli utenti di Booking, Expedia e Tripadvisor, le strutture sarde appaiono tra le peggiori d’Italia. Al 18° posto.

Ragion per cui continuiamo a perdere spazio rispetto ad una concorrenza internazionale sempre più agguerrita (i cui costi dei trasporti, peraltro, non sono del tutto inferiori ai nostri: su Tripadvisor, ad ottobre, periodo di “destagionalizzazione”, un Eurowings Berlino-Ibiza può costare 250 euro, a fronte dei 213 euro di un Easyjet Berlino-Olbia).
Di fronte a questo scenario, associazioni di categoria come Confcommercio-Federalberghi dovrebbero evitare di addebitare le cause di questo gap solo ai trasporti o solo all’abusivismo ricettivo, o solo alle mete in ripresa dopo gli attacchi terroristici, ed osservare la scarsa performance dei propri associati in relazione agli scarsi investimenti compiuti nel corso degli anni. Nonché i vincoli di PPR (e PUC locali) che hanno contribuito a minare un turismo che oggi, col suo 7% del PIL regionale, rappresenta ancora troppo poco “il petrolio dell’economia isolana”.
Ci servono più posti letto e di qualità, il cui numero può aumentare grazie all’apertura a nuovi investimenti capaci di realizzare nuovi alberghi nelle aree che ne sono sprovviste, ed un’espansione – ove possibile – di quelli attuali, anche nella linea dei 300 metri al mare, pur senza infrangerla per preservare l’ambiente.

I Comuni, dal canto loro, non possono limitarsi a ritenere sufficienti le volumetrie esistenti, soprattutto se ubicate in aree di dubbia appetibilità da parte degli investitori (che continueranno così a rivolgersi ad aree già ampiamente presenti sul mercato, come la Costa Smeralda).
Il caso di Siniscola, tra i pochi Comuni costieri ad essersi affidato in prevalenza al settore extralberghiero (ed alle seconde case), senza un valido tessuto alberghiero, rappresenta uno dei maggiori limiti dell’offerta isolana. Con un basso volume di presenze, pari ad 1/5° di quelle di Comuni quali Orosei e Budoni, muniti invece di strutture alberghiere.
Ricordiamoci infatti che un albergo di fascia medio-alta, a differenza della piccola ricettività, gode di un alto numero di posti letto, di personale qualificato e di risorse che investe in promozione della struttura e del territorio in cui è insediato. Tutto ciò comporta positive ricadute economiche nel territorio, il cui movimento in termini di presenze consente lo sviluppo di altre attività locali, quali commercio e ristorazione, ma persino terze imprese ricettive minori, a basso valore aggiunto (“effetto magnete”).

Per altro verso, se appare auspicabile una riqualificazione degli immobili inutilizzati esistenti, bisogna tener presente che solo un’esigua minoranza potrà essere recuperata per finalità ricettive. Anche in considerazione dell’evoluzione architettonica subita dalle strutture ricettive nel corso degli ultimi decenni. Pensiamo alla struttura del resort, che si sviluppa su ampie superfici orizzontali. E che oggi rappresenta anche ottime soluzioni di sostenibilità ambientale: come il Valle dell’Erica gallurese, eletto Europe’s Leading Green Resort 2019. O l’Arbatax Park del Giorgio Mazzella Group (Italy’s Leading Eco Resort).

In breve, se appare fondamentale osservare le preferenze degli utenti, e non il numero di presenze fine a se stesso, occorre comprendere quali scelte politiche intraprendere affinché siano gli imprenditori e non la politica stessa a decidere le sorti di un settore dalle varie potenzialità.

Sfortunatamente, il dibattito politico e intellettuale sardo, sul tema, si avvale ancora di un approccio metodologico primitivo. Per esempio, si limita ad osservare la crescita stagionale 2019 dell’extralberghiero (+ 22,23%), e, in maniera semplicistica, si orienta nell’idea che dunque bisognerebbe puntare esclusivamente su questo segmento ricettivo.
Ad un attento esame dei dati scopriamo invece che il segmento è cresciuto unicamente in aree sprovviste di ampi circuiti alberghieri: + 27,81% nel nord-ovest; + 25,86% nel sud. Nessun particolare incremento invece nella costa est, salvo la Gallura, dominata invece dal tessuto alberghiero (come informa il quotidiano La Nuova Sardegna dello scorso 22 settembre).
Insomma, esiste domanda di Sardegna, anche oltre le classiche mete galluresi, ma il territorio offre prevalentemente posti letto extralberghieri, perdendo quote di mercato.

Niente di nuovo: da anni gli esperti sono a conoscenza della scarsa offerta sarda di posti letto, eccetto la Gallura, per la fascia più esigente di utenza che apprezza l’isola. Ma che per il solo mare, senza strutture e servizi adeguati, non è disposta a viaggiare.

Dal canto suo, l’assessore al turismo Chessa propone di incrementare le volumetrie per gli hotel esistenti e di estendere l’offerta golfistica e congressuale dell’isola. Idea parzialmente condivisibile: svincolare gli albergatori esistenti è un passo importante da compiere, ma che da solo, in mancanza di aree palesemente prive di offerta alberghiera, terrebbe in vita una ricettività monca, a due velocità. Con grave svantaggio economico per queste ultime. Senza considerare che anche l’offerta golfistica richiede strutture ricettive di qualità medio-alta per poter raggiungere i migliori standard internazionali.
In breve, non dobbiamo aver timore di aprirci a nuovi investimenti nel segmento della ricettività balneare, senza preoccuparci della sua eccessiva stagionalità. Ma anche nelle aree interne dell’isola (ripensiamo e riabilitiamo gli insediamenti nell’agro, e l’offerta storico-archeologica locale, seppur minoritaria rispetto al circuito balneare).

Questo rapido excursus del contesto sardo ci suggerisce che il futuro del turismo locale non si deciderà tanto nell’assessorato al turismo, quanto in quello all’urbanistica. L’unico a poter riformare i termini degli insediamenti ricettivi, allineandoci al trend del mercato.

L’assessore Quirico Sanna (PSD’AZ) dovrà badare a due insidie:

- la prima riguarda l’attuale galassia di albergatori sardi, in parte filo-assistenziale e impreparata a cogliere le sfide del mercato. Timorosa del fatto che nuovi investitori potrebbero portar via loro delle quote di mercato, quando invece una maggiore concorrenza interna darebbe nuovo slancio all’intera offerta regionale. E questa è la ragione per cui la politica dovrebbe imparare ad affidarsi meno ai consigli di un mondo alberghiero conservatore e incapace di crescere;
- la seconda riguarda la tenacia dell’ambientalismo radicale sardo: una minoranza organizzata, spesso presente sulla stampa e nel mondo intellettuale locale, poco esperta e molto autoreferenziale. Che sfortunatamente ha la capacità di influenzare in negativo ogni tentativo di riforma della legge urbanistica, per tenere in vita un eccesso di burocrazia che vincola e allontana ogni potenziale investitore. Abbiamo dunque bisogno di una politica maggiormente coraggiosa, che non si faccia intimidire rispetto alle riforme da intraprendere, o anno dopo anno continueremo a perdere quote di mercato (e sardi, che sceglieranno ancora la via dell’emigrazione).

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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