Hong Kong: l’autonomia e i principi del movimento indipendentista

Perché la Cina si preoccupa della piccola Hong Kong?

La crisi politica di Hong Kong non ha disinnescato i principi del partito indipendentista messo al bando dalle autorità appena un anno fa. E non mancano analogie col caso catalano, in cui i sostenitori della libertà e della democrazia vengono sanzionati e incarcerati tramite un’interpretazione autoritaria del Diritto.

Vediamo quali, con i sei obiettivi propugnati dall’Hong Kong National Party.

Di Adriano Bomboi.

Con appena due anni di vita, l’Hong Kong National Party (2016-2018), è tutt’altro che morto e sepolto. Nonostante la forza di Pechino, anche questi giorni migliaia di manifestanti non si sono fatti intimorire e sono scesi sulle strade per protestare contro il governo cinese, accusato di voler incrinare l’autonomia di Hong Kong. Infatti, l’ex colonia britannica, tornata alla Cina nel 1997, viene tutelata da una peculiare forma di autonomia. Quale?

L’articolo 5 dello Statuto, e in particolare tutti i primi 11 articoli che compongono i principi generali dei rapporti intercorrenti con Pechino, “garantiscono” ad Hong Kong 50 anni di libertà dal resto della Cina. Una libertà che, oltre al bilinguismo, si sostanzia in una giurisprudenza autonoma da quelle cinese, a partire dal riconoscimento dei diritti individuali (art. 4); e dalla tutela della proprietà privata (art. 6), come in qualsiasi democrazia occidentale.

La Cina tuttavia non avrebbe particolare interesse a coltivare questo modello, definito a suo tempo da Deng Xiaoping, “un Paese, due sistemi”. Memore della dissoluzione sovietica e di Paesi come l’ex Jugoslavia, Pechino non vede di buon occhio ai suoi confini (o persino all’interno) comunità democratiche, multipartitiche, che rischiano di innescare la crisi del partito unico che guida la Cina. Da ciò deriva la difesa al potere di dittature come quella nordcoreana (che regge uno Stato cuscinetto verso la ricca e democratica Seul), e la costante rivendicazione della sovranità su Taiwan (de facto indipendente e con proprie forze armate), oltre che su altre località affacciate sui mari lambiti dai traffici cinesi.

Hong Kong rappresenta dunque una piccola ma dolorosa spina nel fianco del gigante asiatico, capace di causare cancrene di una portata inimmaginabile. In altri termini, benché il Partito Comunista Cinese non sia il monolite che viene spesso dipinto dagli occidentali (al suo interno è formato da varie correnti), questi teme che in 50 anni, assieme alla Cina che rappresenta, possa implodere ben prima del sistema che invece garantisce il successo economico e democratico di Hong Kong. Pechino non ha sicuramente un terrore “militare” di questi concittadini, ma ne ha uno di natura ideologica, poiché la comunità autonoma rappresenta un potenziale modello ispiratore di riforme per 1,4 miliardi di cinesi. Una minaccia colossale ma non immediata che, con ogni probabilità, si preferisce estinguere in tempi non troppo lunghi, al fine di garantire la sopravvivenza di quel curioso “capitalismo” di Stato (la dittatura socialista) che uniforma il Paese.

Ma oggi quanti manifestanti hongkonghesi si spingono a chiedere una vera e propria indipendenza dalla Cina rispetto ad una semplice tutela dell’autonomia?
Non è possibile quantificarne il numero esatto ma è ragionevole ritenere che, come nel caso catalano, i sostenitori dell’indipendenza siano notevolmente aumentati. Soprattutto a seguito dei recenti scontri di piazza tra manifestanti e forze dell’ordine, queste ultime accusate in più occasioni di aver agito oltre i principi liberaldemocratici che animano l’autonomia locale. Vicende che hanno portato a galla un dibattito sul tema della libertà di stampa in un contesto sottoposto alla pesante influenza economica e mediatica cinese.

La messa al bando dell’Hong Kong National Party di Chan Ho-tin, nel settembre 2018, ci ha mostrato analogie e differenze nell’interpretazione del Diritto rispetto alla vicenda catalana.
Per essere precisi, sia Hong Kong che la Catalogna sono due comunità democratiche in cui, ovviamente, non è vietato sentirsi indipendentisti. La situazione inizia a mutare nel momento in cui ci si professa come tali, e ancor più, quando si cerca di mettere in pratica l’obiettivo dell’indipendenza. Ed è a questo punto che Catalogna e Hong Kong iniziano a manifestare le proprie peculiarità: la prima, inserita in un quadro statuale europeo e democratico; la seconda, inserita nel quadro delle più vaste istituzioni dittatoriali del mondo contemporaneo.

Ai catalani è permesso costituire partiti politici indipendentisti e partecipare a libere elezioni, ad Hong Kong ciò non è più possibile. L’HKNP è stato infatti rapidamente messo al bando, e preventivamente precluso dalle elezioni locali, in quanto la sua natura indipendentista sarebbe in contrasto con lo Statuto autonomo di Hong Kong (e del cap. 151 della Societies Ordinance). Benché lo Statuto sia aperto alla democrazia, proclama l’inalienabilità della sovranità cinese (per intenderci, anche l’art. 1 dello Statuto speciale della Sardegna sancisce l’indivisibilità della Regione dalla Repubblica Italiana, ma non è vietato costituire partiti indipendentisti).

Invero, il vulnus democratico riguarda anche la Spagna, nel momento in cui i buoni risultati elettorali degli indipendentisti vengono privati di efficacia, mentre i loro esponenti vengono sanzionati e incarcerati.
Ma l’aspetto più grave della controversia tra Spagna e Catalogna riguarda l’assenza di dialogo politico tra le parti. Se infatti è comprensibile l’assenza di un dialogo tra il regime cinese e la democratica comunità hongkonghese, non lo è affatto quella di una realtà democratica europea, in cui la politica non tenta di offrire una nuova cornice legale al problema. Un problema che, con ogni evidenza, l’attuale architettura istituzionale spagnola non può risolvere ma solo aggravare, anche sotto il profilo economico.

Più complessa invece sotto il profilo economico la controversia tra Cina e Hong Kong. Se un tempo infatti quest’ultima aveva tutte le sue buone ragioni per stare alla larga dal fallimentare modello comunista cinese, la crescita economica della Cina degli ultimi decenni (dovuta ad una crescita dell’apertura verso l’economia di mercato) ha tolto argomenti all’autonomismo honkonghese. Nel caso di specie, che la guerra internazionale dei dazi possa avere ricadute sulla faccenda sarà un’eventualità da seguire con attenzione.

Ciò nonostante, le spinte autoritarie cinesi non hanno impedito la nascita del movimento indipendentista di Hong Kong e l’elaborazione di una piattaforma di sei obiettivi riconducibili alla corrente del liberal nationalism:

1) edificare la Repubblica libera e indipendente di Hong Kong;
2) difendere gli interessi economici e politici di Hong Kong come presupposti fondamentali dell’azione politica (ossia tutela del libero mercato e dei diritti individuali);
3) consolidare la coscienza nazionale di Hong Kong per definirne la cittadinanza (un fenomeno peraltro oggi sondato da una letteratura critica, e non, in materia. Vedere testi di Jason Polley, Ming Sing, Zhenmin Wang, Brian Fong, Jie Zhu, etc.);
4) sostenere e partecipare a tutte le azioni efficaci di resistenza;
5) abolire lo Statuto autonomo di Hong Kong (Basic law) in favore di una Costituzione di Hong Kong;
6) costituire gruppi di pressione economici e culturali a favore dell’indipendenza.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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