Dibattito sul Federalismo: Maninchedda critica Somin, ma lo ha letto?

Nel 2013 è uscito un testo di Ilya Somin, “Democracy and Political Ignorance: Why Smaller Government is Smarter”. Il libro si propone di criticare le origini del malgoverno degli Stati di larghe dimensioni muniti di una struttura centralista, sostenendo il federalismo come deterrente all’ignoranza pubblica in politica. In buona sostanza, l’autore riprende una teoria classica del liberalismo (vedere Alexis de Tocqueville in “La democrazia in America”) corredandola di una serie di ragionevoli argomentazioni per spiegarci perché delle comunità sovrane minori e federali sono preferibili a grandi Stati dove il potere è gestito in modo verticistico. Una di queste argomentazioni riguarda la struttura elitaria assunta dalla Pubblica Istruzione, dove il governo centrale tende ad imporre una determinata linea di valori omogenea per tutti, col fine di consolidare il proprio potere. L’Italia in questo senso è un ottimo esempio, pensiamo alla storia, alla letteratura, alla lingua ed alla geografia della Sardegna, praticamente assenti dai programmi ministeriali romani, che vengono imposti agli studenti Sardi, e che quindi finiscono per non conoscere affatto la propria terra. Altra argomentazione riguarda la funzione egemonica assunta in determinati Stati-nazione da una data etnia (non necessariamente maggioritaria nel Paese) che governa in vece delle altre popolazioni dello stesso Stato (pensiamo alla minoranza bianca del Sud Africa che governò su una maggioranza di neri durante l’apartheid). Altro esempio riguarda inevitabilmente le scelte di politica economica affrontate dal governo centrale eletto in spregio alle varie necessità dei singoli territori da esso controllati. E tutti sappiamo che spesso nel nostro caso le scelte fatte da Roma in vece della Sardegna non sono state affatto positive. Il federalismo (o la sovranità in senso lato), sarebbe una valida soluzione – non per eliminare – ma per ridurre la portata delle sperequazioni causate da una gestione del potere che non premia le reali contingenze socio-economiche locali ma solo delle logiche politiche che esulano da questa necessità. Somin fa l’esempio degli inglesi che non rivotarono il valoroso Churchill, noi potremmo fare l’esempio di tanti Sardi che continuano a votare partiti romani nonostante siano concausa dei problemi della nostra isola. Parafrasando l’autore, se i Sardi avessero un proprio governo, non è detto che risolverebbero i propri limiti, ma avrebbero di fronte una scelta politica maggiormente razionale in rapporto alle principali criticità che un governo eletto esclusivamente da Sardi dovrebbe affrontare. Si parla quindi di responsabilizzare il corpo elettorale incanalandolo verso una struttura istituzionale dove l’ignoranza collettiva possa fare meno danni di quanti ne farebbe in un contesto più ampio. E’ questo il cuore argomentativo del libro. Tali considerazioni portano facilmente Somin a prestare il fianco ai suoi detrattori attirandosi accuse di elitismo. In questa sede ci preme solamente ricordare che il testo si pone in linea con altri autori del pensiero liberale e libertariano in generale, e con giuristi che da tempo hanno individuato nelle dimensioni delle istituzioni uno degli strumenti con cui valutare positivamente o meno l’efficacia di un governo nella sua amministrazione.
Ho conosciuto questo libro di recente e mi ha incuriosito trovare una critica di Paolo Maninchedda (PdS), che seguo sempre con interesse, sui contenuti appena esposti. L’impressione è che Maninchedda non conosca il testo e si sia limitato a criticare superficialmente la recensione di Alberto Mingardi a Somin, sbagliando completamente obiettivo. E questo è paradossale per chi si dichiara indipendentista e vorrebbe costruire uno Stato, magari con argomentazioni analoghe a quelle di Somin (salvo le considerazioni sulle facoltà dei singoli cittadini aventi diritto al voto). Si, perché posso anche concordare con Maninchedda sul fatto che il diritto di voto del singolo cittadino non debba essere esclusivamente basato sulla competenza politica, ma che questo significhi ignorare i problemi determinati da una scarsa consapevolezza del voto unita ad istituzioni lontane dai nostri interessi non è concepibile. Né possiamo utilizzare degli esempi come il Panama di Noriega o di terzi regimi africani quando l’oggetto del testo non è la dittatura ma la democrazia. E dopotutto, non c’è forse un’aristocrazia al governo dell’Italia oggi? Abbiamo un Capo di Stato che ha sforato il mandato dei sette anni ed un Presidente del Consiglio che non è mai stato eletto neppure in Parlamento.
Come dicevo, il testo di Somin si pone idealmente in linea con autori come Leopold Kohr (fra i primi teorici dell’efficienza di Stati piccoli rispetti a Stati maggiori), ma anche con la scuola austriaca, ed in particolare di un autore come Hans Hermann-Hoppe (di cui avete già letto su Sa Natzione), sostenitore dell’elvetizzazione dell’Europa e della decostruzione degli Stati-nazione attuali.
Si fa presto a criticare il liberalismo, ma come ci ricorda anche Somin, questi è alla base del successo di entità confederali come la Svizzera, dove nonostante la crisi internazionale c’è un tasso di sviluppo assolutamente superiore alla realtà italiana (che invece si trova agli ultimi posti nel mondo per libertà economica). Pensate, nella Confederazione Elvetica l’IVA costa circa un terzo rispetto all’Italia, per non parlare del costo del lavoro in generale. Tutto ciò è possibile grazie a 26 sistemi fiscali differenti, dove ogni Cantone fa concorrenza all’altro per strappare migliori opportunità di investimenti. Insomma, si accusa spesso il “neoliberismo” della crisi ma ci si scorda che chi il liberalismo economico e culturale lo ha attuato veramente, tramite il federalismo, sta meglio di chi si vanta di avere la “Costituzione più bella del mondo”.

Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos

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