Politica balorda: Scuola, Popolo, imprenditori e turismo ignorano la storia Sarda

“Andiamo a Salamina, a batterci per l’isola bella,
per scrollarci di dosso la vergogna pesante.”

Solone (Atene, 638 – 558 A.C.).

In varie occasioni abbiamo ragionato sul ruolo e sull’utilità della nostra classe dirigente. In un territorio amministrato da una politica centralista, clientelare e assistenzialista, è sempre alquanto raro osservare misure destinate allo sviluppo, al contrario, spesso si osservano solo misure destinate all’emergenza. E’ il caso dei trasporti, come di tante altre materie che frenano lo sviluppo socio-economico e culturale del territorio.
Nel 2012 la Sardegna continua a rimanere l’unica comunità occidentale a non studiare nelle scuole la propria storia come materia obbligatoria. Ignorare le vicende della propria terra non è solamente un deficit culturale ma anche economico, in quanto viene meno uno dei principali pilastri su cui dovrebbe basarsi sia la destagionalizzazione del comparto turistico, e sia l’eventuale incremento del turismo nel corso del normale flusso estivo che interessa l’isola. Prospettare quindi un modello turistico a 360 gradi, capace di esaltare la ricchezza storica ed ambientale del territorio, è un compito che ogni classe dirigente Sarda dovrebbe mettere in cima alla propria agenda programmatica. In Sardegna, patria di una delle più antiche vestigia archeologiche dell’umanità (quella nuragica), questo non avviene.
I politicanti locali, come del resto buona parte dei consiglieri regionali, non hanno alcuna posizione in merito a questo tema, che invece potrebbe rappresentare una punta di diamante nello sviluppo della nostra industria turistica. Una mancanza gravissima in un territorio dove si emigra e si vive di belle speranze nel grigio mondo della disoccupazione.

L’assenza di formazione dei giovani sul passato della propria terra li induce a ritenere povera la Sardegna, senza opportunità e senza la minima possibilità di investimento. Ma l’assenza di formazione riguarda persino svariati amministratori locali e regionali, i quali non dispongono dei minimi requisiti di competenza per poter capire il problema e le straordinarie opportunità occupazionali che potrebbero svilupparsi. La dinamica ricorda vagamente il ceto medio egiziano all’epoca dell’influenza vittoriana, quando l’Egitto era ancora ben lontano dall’utilizzare le piramidi come volano internazionale per la propria economia turistica.
Come dice bene lo studioso Roberto Bolognesi, il politico ignorante, qualora gli venga fatto osservare questo problema, risponde che ci sono “cose più urgenti a cui pensare”, impegnato com’è a gestire (male) l’emergenza piuttosto che lo sviluppo.
Osserva ancora Bolognesi: “Se cercate Stonehenge con Google, trovate 22.400.000 riferimenti, mentre se cercate S. Antine ne trovate 42.000, ma non tutte riguardano il nuraghe. Eppure non c’è paragone tra i due monumenti contemporanei: Santu Antine è 10 volte più grande, oltre che molto più complesso e bello”.

L’osservazione posta da Bolognesi coglie in pieno le mancanze ed il ritardo politico della Sardegna su vari aspetti: nello studio, nella tutela, nella promozione e quindi nella valorizzazione del proprio patrimonio.
Noi vorremmo fare una proposta: la creazione di una ticket card services, sul modello di quella ideata dall’English Heritage, per introdurre i turisti alla visita delle principali vestigia storiche disseminate nel territorio. Vorremmo, ma non possiamo. Perché la Sardegna è indietro, non solo nella formazione, ma persino nella legislazione e nelle strutture che dovrebbero rendere possibile tale proposta. Dovremmo anche potenziare la nostra Conservatoria delle Coste sul modello del National Trust scozzese, autonomo dal resto del Regno Unito (curiosità: nel sito regionale invece la Conservatoria si dice ispirata al modello accentratore inglese, benché analogo per pertinenze).
Ma come si fa a creare una rete coordinata di promozione storico-archeologica? Se: a) i cittadini non conoscono la propria storia; b) i cittadini non sono formati nel campo della ricettività e del management turistico; c) per conseguenza i cittadini non creano e non sono spinti a creare valide strutture ricettive attorno al patrimonio territoriale; d) non si è mai ragionato sulla “zona franca” come strumento di defiscalizzazione del costo del lavoro e dell’energia; e) non esiste una politica dei trasporti libera dagli oligopoli italiani sostenuti dallo Stato; f) non esiste una chiara condotta promozionale da parte dell’Assessorato al Turismo; g) la Costituzione Italiana assegna allo Stato l’esclusiva competenza sui Beni Culturali derubricandone con la Regione la legislazione concorrente; h) esistono ambienti dell’archeologia Sarda e storici locali ideologizzati e tendenti ad oscurare ogni qualsivoglia tentativo di effettuare nuove e più rigorose ricerche circa la storia dell’isola; i) la Regione non riesce neppure a colmare il gap della cartellonistica su infrastrutture stradali da terzo mondo.

Mentre ci ponevamo queste riflessioni, lo scorso 22 agosto crollava la torre aragonese di Scab’e sai a San Vero Milis, nell’oristanese. Un danno culturale enorme. Il crollo della torre sulla scogliera dimostra che nel 2012 i nemici non arrivano più solo dal mare ma vivono fra noi, nei ritardi e nelle negligenze delle amministrazioni della Sardegna. I dipinti dell’ipogeo di Mandras ad Ardauli e le altre centinaia di strutture archeologiche Sarde faranno la stessa fine? Negligenza e approssimazione sono anche le cause che rendono incerto il futuro dei giganti di Mont’e Prama, una delle più importanti scoperte del mondo sulla statuaria antica a cui il grande pubblico non ha ancora avuto accesso e che non dispone neppure di un valido e unico apparato museale che lo consenta. Chi si ricorda del Bétile?

Pensate, all’ombra di tutto questo non mancano neppure i laureati e i diplomati in corsi di cui, francamente, il particolare contesto regionale non ha bisogno: pensiamo alla mole di studenti in giurisprudenza o alla mole di ragionieri disoccupati, che paiono usciti dal rampantismo del ceto medio lombardo degli anni ’80. Giovani che non studiano neppure la geografia, che conoscono l’ubicazione del fiume Po ma ignorano quella del Tirso. A chi giova un modello dell’Istruzione datato e completamente fuori contesto come quello centralista attuale? Cosa sta facendo la politica per invertire questo trend?
Questi sono solo alcuni dei problemi essenziali connessi ai gravissimi ritardi della Sardegna sul tema.
Uno degli aspetti più inquietanti infatti è che la promozione di un nuovo modello di sviluppo non ha toccato neppure in minima parte le proposte dei consiglieri regionali, di maggioranza e di opposizione, riconducibili a sigle sardiste. Pensate che in materia i Riformatori Sardi sono stati più “attivi” del Partito Sardo d’Azione.
Premesso che, sebbene riteniamo utile non abbandonare completamente l’industria, se osserviamo la storia del PSD’AZ, noteremo che questo partito non fu estraneo a quel processo, chiamato “Rinascita”, che nella seconda metà del ’900, al posto di concentrarsi sul valore aggiunto del territorio, contribuì alla disastrosa importazione di quella grande industria che tanti danni, sia ieri come oggi, ha prodotto nel tessuto sociale e occupazionale dell’isola.
Ecco cosa scrivevano, compiaciuti, alcuni coltivatori diretti durante l’enfasi di una stagione promossa dalla DC, dal PCI e da un sindacalismo alieno alla Sardegna:

“All’iniziativa di assessori sardisti si deve il vigoroso impulso dato alla industrializzazione della Sardegna, come il necessario strumento del progresso generale dell’isola. Le realizzazioni sono sotto gli occhi di tutti: da Cagliari a Porto Torres, da Sarroch a Olbia, a Siniscola, a Macomer, ad Arbatax, a Portovesme, a Sant’Antioco, a Villasor, a Villacidro sono sorti impianti industriali moderni, di dimensione europea, dove i nostri figli, con la sicurezza dell’occupazione, hanno finalmente anche la forza di lottare uniti per il miglioramento delle condizioni salariali, come nelle grandi fabbriche del nord. Ed altri importanti impianti, quello dell’alluminio e quello della metallurgia del piombo e dello zinco, stanno sorgendo a Portoscuso, progettati e finanziati durante la gestione sardista dell’Assessorato all’industria”.

Il Solco, giugno 1969.

In pieno sessantottismo, l’ideologia statalista dell’industrializzazione e dell’operaismo oscurò completamente un altro modello di sviluppo che stava sorgendo in Sardegna e che i politici dell’epoca consegnarono a piene mani ad altri: la Costa Smeralda del principe Karim Aga Khan.
I Sardi avevano svenduto storia, braccia e ambiente, ottenendo in cambio subalternità economica. Dagli anni ’60 abbiamo ereditato la nuova emigrazione, l’inquinamento, il cancro, la disoccupazione, l’assistenzialismo e il servilismo (già conosciuto durante il Regno d’Italia, quando il tozzo di pane non era un diritto ma una paternale concessione). Si pensava di riempire il portafoglio, ma sono state riempite solo le piazze, di scioperanti.

Ad oggi sono ben poche le iniziative destinate a divulgare conoscenza e valorizzare i nostri Beni Culturali. Al di là del gattosardismo, si segnala un tentativo bipartisan del Consiglio Regionale per dare vita ad una Fondazione destinata ad occuparsi del patrimonio archeologico, artistico e museale Sardo. Una proposta che tuttavia ha sollevato le critiche e le opinioni di diversi osservatori, tra cui l’ANA Sardegna (Ass.ne archeologi italiani) e il Gruppo di Intervento Giuridico, in quanto il nuovo ente non permetterebbe adeguati criteri di flessibilità gestionale, dando spazio a personale non qualificato e la cui assunzione dovrebbe essere sottoposta a dei bandi di gara per comprovarne la professionalità e la competenza. L’ombra del parassitismo clientelare dunque continua ad esercitare non poca influenza sui ritardi della Sardegna.

Nel frattempo, la “fantasia” dei nostri pochi imprenditori turistici, completamente slegata dal contesto storico Sardo, non si spinge oltre l’emulazione delle pizzerie napoletane o degli stabilimenti romagnoli. Ne parlammo anche col regista pubblicitario Mario Giua Marassi.

Roberto Bolognesi ha paventato una commissione internazionale di studi per fare luce sul patrimonio storico ed archeologico Sardo, anche per appurare l’esistenza o meno di una scrittura “nuragica”, la cui eventuale conferma cambierebbe per sempre i manuali di storia fin’ora conosciuti, con evidenti ricadute sul turismo culturale e sulla fama internazionale della Sardegna (di cui già oggi con gli attuali reperti dovremmo poter beneficiare). Ma la verità è che prima di tutto avremmo bisogno di una commissione d’inchiesta per stabilire le responsabilità sulle imperizie, le omissioni, gli scarsi finanziamenti e le negligenze ideologiche della politica, degli operatori Sardi e italiani impegnati nel settore, che contribuiscono a ritardare l’affermazione di un nuovo modello culturale nel proporre l’industria turistica Sarda. Eppure, anche in questo caso saremmo vittime dei presunti esperti locali, i quali, persino nel 2012, nel loro lavoro di ricerca e di divulgazione continuano a confondere le favole con il rigore determinato dal metodo scientifico. E’ il caso del mito della “Sardegna italiana” con cui nell’isola nacque il mestiere dello storico. Tanti nuovi eredi di Pietro Martini non perdono occasione per denigrare qualsiasi scuola di pensiero, fondata o fantasiosa che sia, capace di dimostrare una alterità culturale della Sardegna rispetto alla penisola (si badi, fra le varie, alle reticenze sui popoli Shardana). Il 5 marzo 2011, in piena continuità illuminista col naturalismo settecentesco e con il romanticismo risorgimentale del 1847, ecco cosa scriveva il nazionalismo italico del noto Manlio Brigaglia su una collana di storia Sarda prodotta dal quotidiano La Nuova:

“All’inizio i Savoia preferirono che non si facesse niente per insegnare l’italiano in quell’isola che non vedevano l’ora di dar via, poi si convinsero a insegnarla al maggior numero di sardi: è da quel preciso momento che la Sardegna torna ad essere un pezzo d’Italia”.

Che significa “torna ad essere un pezzo d’Italia”? Prima di allora esisteva una nazione italiana? Forse Brigaglia si riferisce all’antica conquista romana della Sardegna? Il mondo latinizzato era “nazione italiana”? Dando credito a una simile patacca bisognerebbe spiegare anche agli iberici, ai francesi, agli inglesi, ai tedeschi e a mezza Europa mediterranea e mediorientale conquistata dal marmo capitolino che hanno fatto parte della superba nazione italiana! Vorrebbero lor signori tornare ad essere “un pezzo” d’Italia?

Piuttosto, quanti conoscono, ad esempio, la storia di Francesco Cilocco? Sarebbe bene introdurre, obbligatoriamente e non facoltativamente, lo studio della storia Sarda nelle scuole. Una storia ripulita dagli oscurantismi, dalle incrostature ideologiche e prive di serietà scientifica diffuse per decenni dalla Pubblica Istruzione italiana. Intendiamo manuali di storia che contengano anche le reali tensioni ideali e le effettive condizioni sociali, politiche ed economiche dei territori che portarono alla nascita dello Stato unitario, con la sua guerra civile, il suo sprezzante autoritarismo centrale travestito da moderatismo liberale, i suoi taciuti massacri, le decisioni elitarie ignorate dalla massa, ma anche le disparità, le ingiustizie, le sperequazioni, la corruzione e l’inettitudine della politica (Sarda e piemontese) che condusse la nostra isola a stabilirsi nell’orbita dell’attuale Repubblica Italiana, con i suoi pregi e i suoi difetti.

Di Corda M. & Bomboi A.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Nazionalisti Sardi

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    2 Commenti

    • HE LEÍDO CON ATENCION SU MUY INTERESANTE PUBLICACIÓN,Y, SI BIEN LA TRADUCCIÓN NO ES MUY BUENA, COMPARTO TODA SU ESENCIA Y ME PARECERÍA MAGNÍFICO QUE SE PUDIERA REALIZAR LO QUE USTED PROPONE.lO FELICITO.

    • [...] fare, e piuttosto che occuparsi dei punti franchi dei porti industriali e del finanziamento della cultura Sarda, sono occupati a dibattere sulla gestione del teatro lirico, di cui non importa nulla a [...]

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