I 150 anni dello Stato Italiano e la periferia Sardegna. L’amaro anniversario

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1861, il Regno di Sardegna, guidato dall’espansionismo della monarchia sabauda, si proclama Regno d’Italia.
2011, la Sardegna affronta una delle maggiori crisi economiche della storia contemporanea. La disoccupazione che affligge i giovani si attesta attorno al 44%, di circa venti punti oltre la media italiana. Mentre la cultura, la lingua, l’ambiente e – più in generale – tutto il sistema Sardegna, versano in un quadro di declino del quale la nostra classe dirigente non sembra rendersi conto.
Ma come siamo arrivati a tutto questo? Non potendo dilungarci in questa sede nell’illustrarvi un saggio che racchiuda gli elementi storici, culturali, sociali, economici ed internazionali che ci hanno condotti a questo punto, tratteremo la questione per sommi capi, per quanto possibile.

In Italia oggi ci sono tre correnti di pensiero, non molto note sul piano dell’analisi, ma che cercheremo brevemente di esporvi: la prima, la più diffusa, ha una matrice romantica e riguarda quel costrutto sociale, intellettuale ed istituzionale che crede nel mito del risorgimento. Un mito nel quale pochi valorosi uomini si sono battuti per uniformare la penisola italiana attorno al concetto di nazione, dandogli uno Stato sovrano.
Nel quadro di questo mito non dovremmo vedere solo figure retoriche o personaggi e pensieri immaginari, ma uomini e donne in carne ed ossa che hanno creduto alla liberazione del proprio territorio dal dominio esterno (pensiamo a quello asburgico). In quest’ottica, come nazionalisti Sardi, non possiamo che rispettare coloro che si sono battuti per l’ideale della nazione italiana e che, spesso, vi hanno sacrificato la vista stessa. Non ci riferiamo solo al passato di epoca garibaldina, ma anche al presente: pensiamo ad esempio ai servitori dello Stato caduti nella lotta alla criminalità organizzata.
Ma questo non va necessariamente posto in antitesi con una seconda corrente di pensiero, più o meno latente, ma ultimamente giunta agli altari della cronaca: essa è data da quel variegato sentimento sociale che non crede all’unità italiana e ritiene doveroso dare una rappresentanza a quella moltitudine di corpi sociali che un tempo (ed in parte ancora oggi) hanno rappresentato (e rappresentano) culture, lingue e ordinamenti sociali diversi.
La Lega Nord ha avuto il merito di porre queste tematiche, su base federalista, direttamente nel cuore di Roma. Benché in verità, questi temi fossero già appannaggio di varie forze e soggettualità presenti nel territorio della Repubblica Italiana. Pensiamo infatti al sardismo (cosa ben diversa dal leghismo), od agli storici moti indipendentistici siciliani e/o, in minor misura, veneti e altoatesini. Per citarne solo qualcuno.
La terza corrente di pensiero è abbastanza recente, ma non si discosta nell’assunto finale dalla prima. Potremmo considerarla una “giustizialista via di mezzo”: essa riguarda quella (seppur minoritaria) serie di storici italiani che si stanno ponendo con un approccio critico al mito risorgimentale, osservandone la realtà ed il metodo con il quale l’Italia è passata dall’essere una semplice definizione geografica ad un istituto politico sovrano. Tra questi vi è Arrigo Petacco.

E come è stata fatta dunque l’Italia unita? Generando un divario nord-sud ed insulare. Proprio assimilando (non integrando) con la forza, al modello piemontese, territori con culture, lingue ed economie (oltre che istituzioni), diverse.
Il mito è stato solidificato in epoca fascista, mentre l’era repubblicana, quella odierna, attraverso sport, scuola e mass-media, ha fatto il resto.
Lo Stato Italiano è dunque il naturale erede del tricolore centralista francese. La monarchia sabauda, aiutata a suo tempo dall’establishment napoleonico, adottò infatti un modello istituzionale centrale, ben diverso – ad esempio – da quello contemporaneo anglosassone: per Torino prima, e Roma dopo, conosciamo uno Stato ed una sola nazione.
Il Regno Unito invece è formato da 4 nazioni.

Quali sono dunque i limiti del nostro sistema istituzionale? Che esso, per sua stessa natura e struttura, non può occuparsi di definire centralmente tutte le peculiarità e le specificità presenti all’interno dei suoi confini. La Sardegna, ad esempio, ha caratteristiche socio-economiche ed ambientali diverse da quelle della Toscana e/o dell’Abruzzo.
Caratteristiche che talvolta, come sul piano economico e sul campo della non-discriminazione linguistica, fanno entrare i nostri interessi in conflitto con altri.
Ciò è dato anche dal peso demografico che politicamente i singoli territori riescono a produrre.
Ad esempio, la Sardegna, avendo meno abitanti (e quindi meno elettori) della Sicilia, deve cedere a quest’ultima la rappresentanza delle proprie esigenze sul piano Europeo.
Ma pensiamo agli innumerevoli finanziamenti spesso sottratti al nostro territorio a favore del nord’Italia per investire – non in assistenza ma – sul futuro. Nel sistema centralista, più rappresentanti si hanno al potere di Roma, più possibilità ci sono di ottenere ciò che non dovrebbe essere “il contentino” ma IL DIRITTO.
Nei veri sistemi federali invece, come quelli osservabili in diversi esempi della Comunità Internazionale, ogni territorio ha la possibilità di controllare direttamente alcune materie ed esercitare precisi poteri (come sul campo scolastico, linguistico e/o dei Beni Culturali, oltre che in precisi ambiti economici e sociali). Ma inoltre il suo peso nel Governo centrale e/o in un dato Parlamento federale non è inficiato da deficienze di carattere demografico.
Le nazioni hanno inoltre la possibilità, in base ai principi del diritto internazionale, di autodeterminarsi totalmente anche dalla eventuale federazione di cui facciano parte. Processo ovviamente duraturo nel tempo ma comunque legittimo e non subordinabile (sul piano etico prima che giuridico) agli interessi di una sola nazione a scapito di quella il cui Popolo avrebbe scelto di rendersi indipendente.

Compito degli autonomisti, dei federalisti e degli indipendentisti Sardi oggi è quello di COLLABORARE ed interrogarsi sulle forme e sui metodi per superare l’attuale centralismo in cui la Sardegna è relegata, affinché diventi soggetto protagonista dell’Europa e del mondo e non più periferico oggetto dell’Italia, delle sue disparità e della stessa famiglia Europea.
Si stima che circa un milione e mezzo di Sardi siano emigrati via dalla Sardegna per cercare nuove opportunità: lo stesso numero di abitanti attuali dell’isola. Noi vogliamo investire sul futuro, non sulla desertificazione.

Grazie per l’attenzione, vi auguriamo un felice 2011!

Di Corda M. e B. Adriano.

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Parte 2: Danni, vivi e morti di Sardegna.

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