Sardegna chiama Sardegna: pregi e difetti del programma politico

“Sardegna chiama Sardegna”, l’associazione formata da giovani che intendono promuovere politiche riformistiche per rilanciare l’economia dell’isola, ha presentato un proprio programma, che merita un commento su alcuni specifici passaggi. E in particolare sul tema della riforma dello Statuto regionale.

Partiamo dagli elementi positivi.

In primis non si può fare a meno di notare due argomenti di peso che questo spazio sostiene da anni: la necessità di diversificare maggiormente il nostro tessuto produttivo, nonché il potenziamento dell’istruzione. Due fattori peraltro connessi tra loro.

L’isola ha bisogno di incrementare le proprie competenze, elevando sia il numero che soprattutto la qualità dei nostri laureati, affinché i saperi acquisiti vengano messi a disposizione tanto della politica, quanto dell’economia sarda. Un processo che ovviamente richiede tempo, e non può essere realizzato nell’arco di qualche legislatura regionale, la quale dovrebbe almeno porne le basi.

Per “diversificazione” intendiamo la creazione delle condizioni che consentano, in prospettiva, al tessuto produttivo locale, di differenziare meglio la propria offerta, e di sviluppare maggiori capacità di export.

“Sardegna chiama Sardegna” sembra aver dunque compreso che il futuro dell’isola non deve passare unicamente per turismo e settore agrozootecnico (da migliorare), ma anche nello sviluppo di vari settori, tra cui quello delle nostre competenze digitali, in cui per un breve periodo siamo stati all’avanguardia (si pensi alla nascita di Tiscali, solo per citare l’esempio più celebre). Elementi che ci consentirebbero di stare al passo, con competitività, con le catene globali del valore. E per arrivarci, aspetti non meno importanti, i giovani di SCS propongono una riforma dello Statuto autonomo regionale, nonché lo studio, di pari grado, della nostra lingua e della nostra storia, affinché si sviluppino sia maggiori competenze che consapevolezza circa il nostro territorio e le sue potenzialità.

Tutti concetti già largamente espressi da anni anche dal sottoscritto e nel saggio Problemi economico-finanziari della Sardegna (Condaghes, Cagliari 2019).

Ma nonostante i buoni propositi di SCS, per attuarli, non mancano alcune loro soluzioni preoccupanti, e un certo grado di confusione che mina la possibilità di un cambiamento.

Si pensi al passaggio del programma in cui SCS intende affrontare il problema dello spopolamento interno. Le soluzioni prospettate, che adesso citerò, non sono affatto innovative e, per la loro stessa natura, portano a chiederci: “ma, per esempio, in che modo Sardegna chiama Sardegna intende riformare lo Statuto regionale?”

Perché parlo di spopolamento e anche di Statuto regionale?

Perché SCS, tra i vari punti, suggerisce l’idea che la fuga dei sardi dalle aree interne dell’isola possa essere affrontata con un mix di servizi di prossimità e di incentivi pubblici al lavoro, resi non occasionali ma strutturali.

In altri termini, SCS propone di incrementare la spesa pubblica, in un territorio già gravato da un elevato tasso di spesa in rapporto al PIL, reiterando soluzioni che – anche in altre esperienze estere – non hanno minimamente risolto problemi analoghi, se non quello di peggiorare la condizione assistenziale locale.

E in quest’ottica che ruolo ha o dovrebbe avere dunque una riforma dello Statuto regionale?

Ovviamente nessuna. Per realizzare questo preciso punto di programma del SCS, non ci sarebbe alcun bisogno di riformare lo Statuto vigente.

In che modo invece si potrebbe invertire il trend allo spopolamento interno senza un eccessivo ricorso alla spesa pubblica e grazie ad una riforma dello Statuto regionale?

Come ripetiamo da anni, ad esempio tramite un “modello elvetico”, ostico da attuare.

Una struttura territoriale munita di fiscalità asimmetrica, più bassa nelle aree interne, affinché determinate località dell’isola divengano appetibili per degli investimenti. Perciò occorre agire sulla leva fiscale e su quella burocratica, limandole, cambiando dunque paradigma.

Meno assistenzialismo, più libertà.
Ossia, meno politica, più mercato.

Una maggiore infrastrutturazione del territorio deve andare di pari passo con l’interesse, per un’impresa, a stanziarsi in un territorio. Perché realizzare servizi in località prive di lavoro, con un fisco elevato, porta solamente allo sperpero di risorse in cattedrali nel deserto, senza agire strutturalmente sulle condizioni del sottosviluppo (in cui pure la scarsa istruzione, come suddetto, ha un peso non indifferente).
Se si continuano ad erogare incentivi in termini di sussidi, senza agire sulla leva fiscale, continueremo perlopiù ad attirare in loco avventurismi aziendali pilotati dalla politica e destinati a fallire nel momento in cui il mangime pubblico verrà meno, lasciando nuove macerie e nuova disoccupazione nel territorio.

A questo riguardo, pensate ad esempio all’assurda proposta del SCS di rendere strutturale un finanziamento per ristrutturare il patrimonio edilizio interno dell’isola. Sarebbe un incredibile sperpero di denaro pubblico, del tutto insostenibile e per nulla utile in termini di “effetto moltiplicatore”.

Noi non dobbiamo sussidiare uguali opportunità di vita tra centro e periferia, né tra aree interne e aree costiere. Noi dobbiamo solamente limitarci a far si che ogni area possa sviluppare le condizioni per rendersi fruibile a degli investimenti che non siano calati dall’alto da parte della politica. Stop. Se poi i sardi, come gli islandesi, preferiranno vivere maggiormente nelle coste, non bisognerà accanirsi terapeuticamente.

E qui arriviamo ad un altro nodo fondamentale che porta alla seguente domanda: “ma dentro Sardegna chiama Sardegna hanno compreso realmente il peso della necessità di far crescere l’istruzione come volano per sviluppare, in prospettiva, l’economia?”

La risposta purtroppo è negativa, per delle semplici ragioni che rinveniamo nel loro stesso programma politico.

Per esempio SCS ritiene, in modo alquanto ingenuo, che l’assenza di diritti dei lavoratori possa essere affrontata con un semplice incremento dei controlli alle imprese, circa le condizioni contrattuali dei salariati, e/o che si possano pure erogare sussidi sulla base di tali condizioni.

Questo passaggio ci evidenzia che SCS ha una visione assolutamente insufficiente dell’economia sarda, che non tiene conto di fattori capitali per lo sviluppo.

Il primo è indubbiamente il fatto che “Sardegna chiama Sardegna” non comprende le ragioni per cui nell’isola esistono bassi salari, che non dipendono dalla semplice inosservanza delle regole da parte di “biechi” imprenditori (il che ci fa intuire che chi ha stilato il programma non ha sviluppato un ragionamento che lega l’istruzione al tasso di produttività del nostro territorio).

Tasso di produttività basso, a sua volta legato al nanismo medio delle aziende presenti nell’isola. Cioè abbiamo un tessuto produttivo per la maggiore formato da microimprese, scarsamente competitive in quanto tecnologicamente obsolete, per via della propria inconsistenza finanziaria, e non in grado di stipendiare adeguatamente i propri collaboratori.

Tra gli obiettivi della riforma del nostro Statuto devono invece esserci i presupposti che portino le aziende, non a galleggiare sui sussidi, ma a crescere, anche in termini dimensionali, ed a poter investire in innovazione. Ossia ciò che aumenterà il tasso di produttività, e conseguentemente, con le skills dei propri dipendenti, anche i salari.

Un processo ovviamente lungo nel tempo, dagli esiti non scontati e irto di difficoltà, ma che richiede chiarezza di idee per poter essere almeno tradotto in un programma politico. Chiarezza che in SCS ancora non si vede.

In conclusione, “Sardegna chiama Sardegna” si configura come un’organizzazione molto promettente, viste alcune premesse considerate, ma non ha ancora ben focalizzato le svariate ragioni del nostro sottosviluppo locale, ed ha elaborato in vaste parti del suo programma delle soluzioni superate, e per nulla risolutive dei problemi. Ci sarà da lavorare di più.

Di Adriano Bomboi.

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