9 novembre 1989: cade il muro di Berlino, sale la libertà

9 novembre 1989: trent’anni fa il crollo del muro di Berlino.

Il crollo più rumoroso della storia portò alla riunificazione della Germania, annunciò l’inevitabile implosione dell’Unione Sovietica e permise la nascita di una nuova Europa, spalancando le porte all’indipendenza, alla democrazia e allo sviluppo economico per tanti popoli che poterono sottrarsi alla barbarie del regime comunista.

Ciò nonostante, la vittoria del capitalismo e delle liberaldemocrazie occidentali non ha fatto appieno tesoro di quel risultato: ancora oggi populismi di destra e sinistra minacciano un ritorno a ideologie di morte e miseria.

Per ricordare il clima di quegli anni, ecco una premessa storica, con qualche aneddoto del viaggio di un giovane Bomboi, mio padre, nell’URSS di Breznev.

Di Adriano Bomboi.

Sin dai primi anni ’70 era ormai evidente che l’URSS stava perdendo terreno nella sfida dell’innovazione tecnologica con l’occidente, fulcro, come informa la letteratura economica, di ogni serio sviluppo. La decimazione della proprietà privata e del libero mercato aveva compromesso le capacità di Mosca nel produrre e diffondere efficienti beni e servizi. La crisi si trascinerà sino ai tardi anni ’80, quando sarà ormai del tutto evidente quanto il socialismo fosse incapace di generare nuova ricchezza, salvo quella estratta dal lavoro dei popoli sottomessi alla dittatura.
Come se non bastasse, il regime continuava a far sparire o spedire oppositori nei campi di concentramento, invadendo altri Paesi, pensiamo all’Afghanistan, e finanziando all’estero le più disparate attività in chiave anti-occidentale: da partiti, movimenti e governi comunisti di Paesi democratici e non. Sino ad intellettuali, artisti, organizzazioni sovversive e associazioni pacifiste varie.
Nel frattempo, la Repubblica Federale Tedesca macinava importanti successi economici e sociali, da cui invece la Germania dell’est rimase tagliata fuori. Per 28 anni, dal 1961 al 1989, una militarizzata muraglia di cemento separò non solo l’economia ma un popolo intero e tantissime famiglie. A Berlino il “paradiso socialista” spinse tantissime persone a morire e rischiare la vita per tentare la fuga verso l’ovest, ma mai tantissime persone tentarono di andare verso est.

Tra chi si avventurava ad est vi erano poche categorie di eroi: politici, soprattutto comunisti, intellettuali e turisti vari. Tra questi, assieme a degli amici sardi, un giovane Bomboi, mio padre, emigrato per lavoro nella Opel di General Motors, che all’epoca era uno dei più grossi marchi automobilistici europei e produceva ammiraglie come la Diplomat, non inferiori alle concorrenti Mercedes e BMW.

Ebbene, tra gli operai della Opel si trovavano diverse categorie di persone: tedeschi e immigrati vari, persone disinteressate alla politica, ma anche ex nazisti ed ex comunisti. Alcuni letteralmente fuggiti dall’URSS. Un giorno uno di loro venne a conoscenza della “gita” che mio padre aveva organizzato verso Praga, appena dilaniata dai carri armati sovietici, e gli chiese un favore molto semplice: portare denaro e alcuni beni di conforto alla famiglia rimasta nell’ex Cecoslovacchia.
Ma alla fin fine questo denaro non venne mai consegnato.
L’esule decise di non esporre mio padre ad un rischio simile, perché – disse -, qualora fosse incappato in qualche invadente perquisizione, sarebbe stato arrestato come “spia” e magari deferito alla Stasi (verso la DDR) o al KGB, famigerati servizi di intelligence. La “primavera di Praga” aveva generato un clima particolarmente oppressivo.
Eppure, quando il viaggio si concretizzò, le guardie sovietiche di frontiera non parvero troppo interessate alle idee dei turisti sardi, quanto alle loro tasche: ripulirono letteralmente le scorte di bevande e alimenti che i viaggiatori si erano portati dietro in auto.

A quel tempo infatti essere una guardia di frontiera costituiva un privilegio, perché recava dei vantaggi: poteva intascare piccoli beni di consumo, o somme di denaro, dagli occidentali che entravano ed uscivano dall’URSS. Gruzzoletti che in patria non avrebbero mai potuto ottenere.

Giunta a Praga la combriccola di sardi prese in affitto un appartamento presso una famiglia locale. Ma non chiamatelo “affitto”, la donna di casa scongiurò mio padre di non dire mai in pubblico una parola del genere. Se le autorità fossero venute a conoscenza dell’accordo, avrebbero inquisito o arrestato la signora in qualità di “imprenditrice”, “nemica del popolo e dello Stato, che aveva ceduto alle lusinghe del capitalismo occidentale traendone un profitto personale”.
I privati infatti avrebbero potuto unicamente ospitare gratis gli “amici” occidentali, previo assenso delle autorità, e non certo dietro un corrispettivo di denaro.

In conclusione, queste curiosità denotano la triste realtà dell’esperienza sovietica: un mondo immobile, dominato dalla paura, dove veniva pubblicamente impedita a chiunque la possibilità di migliorare la propria dimensione individuale e familiare, che trovava pochi spazi di libertà nella sola sfera privata e nell’unico serio mercato esistente, quello in nero. Sommerso agli occhi delle ipocrite autorità deputate a reprimerlo.

Non date mai per scontata la libertà raggiunta nel 2019. Pochi decenni fa c’è chi è morto nel tentativo di raggiungerla, aggrappandosi ad un muro costruito da un sogno. Un sogno trasformatosi in un incubo, la più grande prigione a cielo aperto della storia: il comunismo.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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