Web Tax: quando il ‘bene comune’ danneggia le imprese

Web Tax: i Paesi più tassatori d’Europa si trovano concordi nel colpire i colossi digitali, accusati di “evasione”, ma si tratta di aziende i cui servizi hanno alimentato il commercio di tante imprese minori che oggi hanno trovato su internet nuove opportunità con cui resistere all’assalto del fisco di questi Stati.
Come al solito, la demagogia dei babbei rischia di fare più danni di quanti intenda risolverne. Vediamone alcuni – Di Adriano Bomboi.

Non dev’essere un caso che Italia e Francia, già ai vertici del prelievo fiscale sulle società, siano in pole position tra i Paesi che vorrebbero tassare i giganti USA del web, come Google, che in Europa hanno invece “trovato riparo” in alcune precise realtà, come l’Irlanda, dal fisco meno invasivo del nostro.

Stando ai dati della Banca Mondiale, nel 2016 l’Italia ha raggiunto un total tax rate del 62% (di poco in calo rispetto al 64,8% del biennio precedente). Peggio di noi, per capirci, fanno Paesi come il Venezuela o il Chad, non proprio esempi di successo. Da sfatare poi il mito secondo cui le democrazie dell’Europa settentrionale si concedano il lusso di una simile spoliazione fiscale: la Danimarca, ad esempio, si trova al 25%, di appena un punto sotto all’Irlanda.

Sfortunatamente, alle nostre latitudini un ceto politico formato da demagoghi dediti ad incrementare la spesa pubblica non ha ancora imparato nulla dalla sequela di aziende fallite o fuggite all’estero (tra le maggiori, il caso Fiat, alloggiata ad Amsterdam e Londra, è di per sé emblematico).
Gli slogan sono sempre i soliti, spesso accompagnati dalle più assurde cifre che certi “manigoldi della rete” avrebbero evaso a danno dei poveri fratelli d’Italia, e li possiamo riassumere nei seguenti termini: “i grandi del web macinano fatturati immensi e non lasciano un briciolo di soldi, a pagare sono solo le imprese minori. Bisogna tassare i più ricchi!”

Ovviamente un Paese afflitto da un simile analfabetismo economico non si propone di ridurre il peso del fisco a favore di tutte le aziende ma di colpire maggiormente i colossi digitali, cioè proprio quelli che oggi contribuiscono all’innovazione e al commercio delle migliaia di imprese minori suddette.

Colossi che, qualora gravati da una “web tax” (dai criteri ancora misteriosi, magari orientata sui fatturati), li spingerebbe a tagliare gli investimenti, o scaricarne i costi sugli utenti e sulle imprese che commerciano grazie ai loro servizi.

Insomma, proprio quando bisognerebbe accompagnare e far crescere la timida ripresa economica (non certo dovuta alle mancette elettorali del PD), si cerca di colpire la nuova frontiera del libero scambio nell’ingenuo tentativo di fare cassa. Col fondato rischio, tra l’altro, di avvantaggiare aziende extraeuropee concorrenti alle nostre.

Questa mentalità sudamericana, che al posto di criticare il proprio fisco colpevolizza quello di Dublino, rientra appieno nel “neoluddismo” tanto caro a un certo ambiente progressista. Come quello di chi vorrebbe tassare i robot (ma che al lato pratico finirebbe solamente per tassare due volte le stesse imprese che li producono), con i medesimi danni a carico degli investimenti per l’innovazione e, infine, dei consumatori. Una follia a cui si stanno contrapponendo, seppur in minoranza, altri Stati membri dell’UE.

Come al solito la storia si divide tra chi ha voglia di fare (e investe anche nella specializzazione dei giovani per far fronte alle sfide dell’automazione), e chi intende fermare il progresso (a base di tasse e di università dove il nepotismo prevale sul merito).

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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