Jobs act sul lavoro: come si spiega il boom dei voucher?

Jobs act sul lavoro: in Italia un dipendente costa 31mila euro ma ne guadagna appena 16mila. I voucher consentono di risolvere una parte di questa ingiustizia. Ma se il costo del lavoro rientra nella media UE, lo stesso non può dirsi per il prelievo fiscale sugli utili delle imprese, tra i più alti del mondo. Vediamo gli errori di sinistra e sindacati di fronte ad un contesto in cui, come osserva Elena Vigliano, l’imprenditore paga due dipendenti: il primo, quello reale; il secondo, quello fasullo, lo Stato – Di Adriano Bomboi.

In Italia, mediamente, un dipendente guadagna 16mila euro ma ne costa 31mila. Una differenza del 46,7%, che pesa sulle spalle del datore di lavoro (dati Istat 2015).
Non stupisce dunque il boom dei voucher, strumento che abbassa al 25% la percentuale dei costi sostenuti per ogni lavoratore occasionalmente assunto.

Elena Vigliano osserva giustamente che, senza voucher, l’imprenditore paga due dipendenti: il primo è quello reale, il lavoratore; il secondo è quello fasullo, lo Stato.

Il governo ha dunque individuato la soluzione ottimale? Non proprio.
Per comprendere il contesto fiscale entro cui imprese e dipendenti si trovano inseriti bisogna considerare altri due fattori:

Il primo è che in Italia il costo del lavoro rientra nella media UE, Eurostat rileva comunque che il calo maggiore si è avuto proprio nel nostro Paese con l’introduzione delle ultime misure decontributive (-0,8% nell’ultimo trimestre del 2015). Questo fattore spinge diverse forze politiche, in particolare sinistra e sindacati, a contestare l’utilità dei voucher, che avrebbero incrementato, non a torto, la precarizzazione dei lavoratori.

Il secondo riguarda la pressione fiscale sui profitti delle imprese, che, secondo uno studio della CGIA di Mestre, si attesta al 68,6%: tra le più alte del mondo (questa infatti supera di gran lunga non solo la media UE ma del globo).
In questi termini è facile comprendere perché le imprese, così tartassate, cerchino ogni spazio possibile per sottrarsi ad uno Stato che drena la maggior parte della ricchezza prodotta, e questo finisce inevitabilmente per toccare la sfera dei diritti dei lavoratori, diritti erroneamente considerati come “acquisiti”.
Quest’ultimo fattore inoltre dimostra uno dei più grandi limiti della sinistra italiana, la cui retorica si concentra unicamente su tali diritti e sul rimarcare l’equità del costo del lavoro, scordandosi tuttavia l’imponente pressione fiscale che finisce per occultare anche i piccoli vantaggi ottenuti grazie ai voucher. Non a caso il Jobs act non si è configurato come una vera e propria riforma per l’emersione del lavoro nero, in quanto quest’ultimo continua a rappresentare l’unico serio strumento di molte piccole e medie imprese per non fallire; e per i lavoratori, l’unico strumento con cui poter mangiare.

Insomma, lo Stato rapina l’imprenditore due volte: la prima, nella fase di assunzione dei dipendenti; la seconda, alla fine del processo produttivo, su cui peraltro insistono diversi altri costi locali (nettezza urbana, energia, etc).

In buona sostanza, in Italia il problema del lavoro non riguarda i voucher (il cui abuso trova giustificazione nell’alta pressione fiscale e burocratica a carico delle imprese). Il vero problema è lo Stato, che continua a drenare ricchezza da sperperare in banche amministrate dalle sue propaggini politiche, a base di assistenzialismo e clientelismo in ogni ambito della pubblica amministrazione e dei suoi servizi. Un processo che finisce per aumentare il divario tra i ceti produttivi (costretti al fallimento, ai licenziamenti ed alla delocalizzazione), ed i tax consumers, sempre più numerosi.

Alcune forze sociali, indifferenti a questo contesto, si avviano così a sostenere soluzioni referendarie di matrice ideologica, come ad esempio l’integrale ripristino dello Statuto dei lavoratori, scordando magari che il famoso articolo 18 riguarda solamente il 2,4% di tutte le aziende italiane (CGIA 2014). Nel settore privato in Sardegna è pressoché inesistente.

E’ facile ritenere che un eventuale referendum sulla materia potrebbe trasformarsi in un flop, come la scorsa consultazione sulle “trivelle”. Perché l’esaltazione ideologica di chi condanna inesistenti politiche “neoliberiste” si scontra con una realtà di partite IVA in netta difficoltà, senza le quali, del resto, non esisterebbe alcuna occupazione.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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