Caso Cualbu? Esito di un clima politico-culturale avverso alla proprietà privata

Cualbu è l’allevatore di Fonni che rischia l’esproprio della sua azienda, 90 ettari con 1800 capi di bestiame, per ragioni di “pubblica utilità”. Intellettuali che hanno in odio il mercato ed il capitalismo, da sempre sostenitori di politiche redistributive deputate a comprimere la proprietà, oggi si ergono a paladini di Cualbu e del suo diritto di tenere e condurre la propria attività secondo le sue esigenze. Mentre politici che arraffano dal portafoglio di un impersonale contribuente traggono i mezzi operativi con cui mettere in pratica le loro speculazioni a danno della vittima – Di Adriano Bomboi.

Giovanni Cualbu è un allevatore di Fonni, rischia di perdere il suo terreno e la sua attività – 90 ettari con 1800 capi di bestiame – a favore di un’azienda interessata ad impiantarvi un’industria energetica, una centrale solare. Tale azienda energetica sta tentando, tramite la politica, di espropriare i terreni dell’allevatore con la motivazione della “pubblica utilità”. L’idea ha già incontrato il favore del governo italiano targato PD, in cui il Ministero dell’Ambiente ha già offerto il suo sostegno all’iniziativa.

Ma l’iniziativa è realmente utile? Lo sarebbe stata se l’azienda energetica avesse investito capitali propri, senza sovvenzioni pubbliche, previo regolare acquisto dei terreni Cualbu. In assenza di tali condizioni, ogni liberale definirebbe quanto sta accadendo un vero e proprio crimine. L’intangibilità della proprietà privata è la pietra angolare su cui si regge non solo il diritto di fare impresa ma la stessa libertà. Nel momento in cui la pubblica coercizione lede queste diritto, si ha un attacco alla sicurezza individuale ed alla vera “pubblica utilità” del bene che rischia di essere sottratto: i prodotti ed il lavoro creato e sostenuto da Cualbu costituiscono infatti la reale utilità sociale derivante dalla sua attività.
Dobbiamo inoltre considerare che la violazione della proprietà privata, sul piano giurisprudenziale, implica la lesione di un altro importante fattore di autodeterminazione: la volontà. Quando una forza collettiva si propone di rappresentare il mito del “bene pubblico” si sostituisce alla volontà individuale, e si producono inevitabilmente sia un furto che una discriminazione.

Bisogna purtroppo constatare che una politica che si aggrappa ad una generica quanto ambigua formula di “pubblica utilità”, così come prevista nel Diritto italiano, utilizzando i soldi dei contribuenti per derubare un privato, rappresenta l’esito finale di una cultura che ha esautorato la proprietà privata dal centro della nostra società.

Intellettuali che hanno in odio il mercato ed il capitalismo, da sempre sostenitori di politiche redistributive deputate a comprimere la proprietà, oggi si ergono a paladini di Cualbu e del suo diritto di tenere e condurre la propria attività secondo le sue esigenze.

Ma non solo: politici che arraffano dal portafoglio di un impersonale contribuente traggono così i mezzi operativi con cui mettere in pratica le loro speculazioni a danno della vittima.

Inutile aggiungere che una siffatta pratica criminosa, legalizzata da un legislatore culturalmente analfabeta, rischierà di estendersi maggiormente qualora lo Stato centrale, a seguito della riforma costituzionale del governo Renzi oggetto del prossimo referendum, dovesse ottenere il via libera.

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