Una replica a Caterini e Angioni su mercato e identità

“Il bastone avrà ragione sull’uomo o l’uomo sul bastone”.

Max Stirner, 1845.

In un interessante articolo di Fiorenzo Caterini mi è capitato di leggere le seguenti osservazioni:

“Quando le grandi multinazionali dell’alimentazione, come la Nestlé, hanno investito le popolazioni dell’Africa con il latte in polvere, demonizzando l’allattamento materno, lo hanno fatto sulla base di un etnocentrismo che negava alla cultura locale diritto di esistere. Il lungo allattamento della madri africane è stato considerato come ignoranza, non come diversità culturale, ma soprattutto un ostacolo al mercato e al consumo del prodotto. Ora stanno contando i danni e i morti.”

Stando a questa valutazione, il mercato avrebbe la tendenza a distruggere la diversità culturale.
Il mercato?

Stando invece ai dati di Farmsubsidy, la Nestlé sarebbe uno dei maggiori beneficiari europei della PAC, la politica agricola europea, che assorbe quasi metà dell’intero bilancio UE. Vale a dire, gli eurocrati di Bruxelles utilizzano il denaro dei contribuenti per sovvenzionare – con circa l’80% del budget destinato al comparto – il solo 20% dei rentier più forti presenti sulla piazza.

Il dato politico ed economico è pertanto evidente: le dinamiche del “libero mercato” non hanno avuto alcun ruolo nel determinare la situazione richiamata da Caterini, che invece ha avuto causali esclusivamente politiche.
La Nestlé approvvigiona le sue produzioni grazie all’ingente flusso di denaro pubblico col quale può effettuare manovre di dumping esterne allo spazio europeo, danneggiando così qualsiasi forma di produzione locale.
Perfettamente d’accordo invece sul resto del suo articolo.

Giulio Angioni, anch’egli antropologo, giunge ad un insidioso paradigma:

“L’accentuazione e la proliferazione delle differenze culturali nel mondo globalizzato attuale è funzionale all’occultamento del controllo economico di poche grandi multinazionali, un modo, fra le altre cose, per naturalizzare e stabilizzare i rapporti di potere attuali, riversando sulle diversità etniche o culturali il malessere di coloro che vengono schiacciati dall’egemonia del capitale internazionale.”

La conclusione di Angioni è sopraffina, perché lancia un’esca per condurre a considerazioni prive di sostanza. Da una parte, a differenza di Caterini, riconosce che nella globalizzazione non c’è una “inevitabile” distruzione delle alterità culturali; dall’altra attribuisce al capitalismo la “capacità” di convogliare le frustrazioni che causerebbe verso le diversità etniche. Se applicassimo il pensiero dell’autore a quello di Caterini, sul caso Nestlé, ne deriverebbe che il “libero mercato” abbia l’intento di scaricare la sua forza dirompente verso le popolazioni più indifese. Nel caso di specie, quelle africane.
Anche in questa approssimata valutazione le istituzioni non sembrano giocare alcun ruolo, né gli Stati-nazione occidentali, né quella tendenza politica che oggigiorno cerca di replicare su scala continentale il mito dello Stato onnipotente e risolutore di tutti i mali, quale è l’Unione Europea.

Dov’è quindi il problema di fondo? Che nelle analisi degli intellettuali sardi si denota l’assenza delle istituzioni in qualità di attori essenziali nella strutturazione di realtà commerciali le cui entità affondano le loro radici in forme più o meno congenite di capitalismo clientelare. Quest’assenza fa venir meno la capacità di cogliere eventuali soluzioni ai problemi. In altri termini, affinché un intellettuale maturi le giuste risposte, è necessario che prima comprenda quali sono le giuste domande.

Nonostante lo scivolone ideologico di Caterini, questi, a differenza di Angioni, nel suo articolo torna sui binari del pragmatismo e riconosce ampiamente il ruolo dello Stato:

“Qui mi preme solo dire questo: che in Sardegna non c’è stata nessuna costruzione dell’identità, anche volendo, perché mancano gli strumenti per farla. Gli Stati-nazione, infatti, costruiscono la propria identità mediante degli strumenti molto potenti, che portano, in particolare, all’unificazione linguistica e del costume. Quali sono questi strumenti? La scuola, innanzi tutto. E dopo la scuola, la televisione di Stato. Poi ci sono altri strumenti potenti, come le leggi, la burocrazia, la religione, l’esercito, la moneta.”

Quanto ricordato da Caterini porta quindi delle comunità stanziate in un preciso territorio a maturare molteplici o ambivalenti identità, come suggerisce uno studio del politologo John McGarry (con M. Moore, 1998), con inevitabili ripercussioni anche sul piano economico. Così il linguista Roberto Bolognesi finisce giustamente per criticare in Angioni una insidiosa tendenza alla sottovalutazione, se non negazione, dell’identità locale.

Eppure, Caterini sfiora la soluzione dell’enigma ma non lo coglie pienamente. Infatti, da cosa è determinato lo sconfinamento del potere statale dall’identità fino all’economia?

Tento una risposta: dal potere coercitivo dello Stato in rapporto al volume della spesa pubblica.
Perché?

Arriviamo ad una sintesi e quindi alla formulazione delle giuste domande: se le istituzioni che detengono la sovranità sono le stesse che hanno la capacità di influenzare la crisi di una popolazione x, la sua identità e la sua sua economia, i problemi derivano dal mercato o dalle dimensioni dello Stato? O meglio: il problema è rappresentato dal capitale, stante alla teoretica post-marxista, o invece, stante alla teoretica libertarian, dalle istituzioni?

Secondo l’economista Hans-Hermann Hoppe i problemi derivano dal volume e dalla natura delle istituzioni. L’intellettuale tedesco sostiene una disarticolazione degli attuali Stati-nazione ed un modello di convivenza internazionale che non tenda alla creazione di un “superstato”, sul modello UE, ma ad una distribuzione policentrica del potere. Cosa intende dirci? Che le istituzioni non tenderebbero a foraggiare guerre, né multinazionali e né costosi apparati di pubblica amministrazione, se fossero piccole e vicine ai propri elettori. Istituzioni snelle non hanno interesse ad eccedere sulla fiscalità dei ceti produttivi, né possono maturare quel volume di spesa pubblica capace di riversarsi negli eccessi di cui sopra, limitando l’espansione del clientelismo e della corruzione.
Questa filosofia politica non è del tutto nuova, e giunge a compimento di oltre un secolo di valutazioni sulla natura dello Stato, che tanto nel liberalismo quanto nell’anarchismo hanno trovato padri nobili e validi argomenti di dibattito (pensiamo, solo per citarne uno, ad Albert Jay Nock).

In Sardegna, Giuseppe Todde, uno dei massimi economisti dell’Ottocento, arrivò a considerazioni analoghe. Perché nonostante il prestigio derivante dalla sua carriera accademica, come ha ricordato Luigi Masala, questi propose invano al governo torinese di concedere all’isola una concreta autonomia politica, accompagnata da una seria liberalizzazione della sua economia, a scapito dei numerosi dazi e monopoli che all’epoca (e ancor oggi per molti versi) ne inquinavano lo sviluppo.

In buona sostanza, forse oggi abbiamo le idee chiare sui problemi, ma ancora tanta confusione sulle cause.

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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