Economia e sferzate. Quando i Savoia imposero la lingua italiana a scuola

Per capire l’irrilevanza politica dei sardi bisogna risalire alle radici culturali con cui la specificità territoriale dell’isola, inclusa quella economica, è stata estirpata mediante l’assimilazionismo linguistico alla penisola, ed in particolar modo all’area piemontese, che fra Settecento e Ottocento costituiva la terraferma del Regno di Sardegna. Due secoli fondamentali nei quali il rinnovato concetto di nazione, sia prima che a seguito degli ideali illuministici, portava tutto il vecchio continente a fonderne i destini con lo Stato. Fu in quest’ampia forbice di tempo che nacque una nuova cultura borghese, espressione di una riflessione politica che trovava nei salotti dell’alta società e soprattutto nei “caffè” pubblici degli spazi di ritrovo. La stampa iniziava ad affermarsi in un nugolo di gazzette e pubblicazioni periodiche varie, cercando di affrancarsi dalla censura che ne seguiva i contenuti.
Ma chi ne faceva parte? Chi erano questi uomini? Indubbiamente i ceti più illuminati della popolazione, coloro che disponevano di ampie proprietà fondiarie (come in Sardegna). Uomini che avevano la possibilità di accedere all’istruzione, principalmente gestita da ordini religiosi, e che in seguito, nell’Ottocento, costituiranno l’ossatura del notabilato politico locale che alimentava i piccoli parlamenti del c.d. “Stato liberale”. Ma la fusione dell’artificioso concetto di nazione, elaborato dall’amministrazione sabauda, così come nel resto d’Europa, tendeva a comprimere il particolarismo  sociale per affermare dei criteri di omogeneità dei nascenti Stati-nazione. Una delle armi a disposizione dei sovrani fu infatti quella di espellere la Chiesa dal settore strategico della formazione, introducendo graduali, omogenei – e spesso brutali – sistemi di educazione della popolazione. Ai “regnicoli” della Sardegna toccò l’ingrato destino di subire un pesante indottrinamento linguistico dotato di una duplice finalità: da una parte la necessità di espellere le lingue iberiche parlate nell’isola dopo secoli di dominazione asburgica; da un’altra la necessità di avere una nuova lingua unificatrice con i regni di terraferma, individuata in quella italiana.

E il sardo? Per quanto fosse implicitamente riconosciuto come lingua madre dell’isola, e in passato anche lingua ufficiale della giurisprudenza giudicale, il suo ruolo non risultava minimamente funzionale ai nuovi obiettivi politici sabaudi, e si scelse di tollerarne l’esistenza lasciandolo circoscritto agli ambiti informali della comunicazione, cioè nel piano familiare e nel piano commerciale (inteso unicamente per il mercato degli scambi interni). La disciplina connessa a questa coercizione ideologica si basava su strumenti pedagogici alquanto rudimentali, come la famigerata sferza. Ecco la prima drammatica esperienza del letterato Giovanni Spano (1803-1878) alle prese con la scuola nazionalista di Sassari:

“Si principiò la scuola. Io non capiva, anzi non aveva mai inteso dal mio maestro pronunciare una sola parola italiana […]. il maestro gridò «In piedi!»; ed io che […] non capiva l’italiano, stetti colle mani incrocicchiate al petto, guardando quel mostro coperto degli abiti del Calasanzio. Egli mi fissa sdegnato, ed ordina all’annotatore di trarmi dal rango dei banchi, in mezzo alla scuola. Costui mi prende per un braccio e mi strascina fuori. Quel boja (mi par di vederlo!) prende la sferza, e mi assesta una serqua di sferzate, sei per mano!”

Tutto ciò fu il risultato delle regie disposizioni avviate nel secolo precedente. Nel 1726 venne adottata la Memoria de mezzi che si puonno praticare per introdurre la Lingua Italiana, in base alla quale ogni sentenza, decreto, pratica o atto burocratico si sarebbe dovuto redigere in italiano. Si specificava inoltre che ogni nuovo “notario” doveva essere esaminato in italiano da ministri piemontesi, pena la non assunzione. In questo modo i sardi divennero automaticamente ospiti in casa propria, ed ogni eventuale avanzamento culturale o di carriera venne subordinato alla conoscenza dell’italiano.
La lingua sarda non rappresentava più il sedicente progresso promosso dai Savoia, ma declassata al rango di idioma della plebe, a debita distanza da qualsiasi possibilità di prestigio sociale.
A fine ’700 l’opera di rieducazione dei ceti dirigenti dell’isola poteva considerarsi un obiettivo pressoché raggiunto, da cui comunque le anonime masse del volgo rimasero escluse fino alla seconda metà del Novecento, in epoca repubblicana. Dopotutto la repressione poliziesca del regime sabaudo aveva stroncato la rivoluzione angioysta che all’alba dell’Ottocento si era proposta di abbattere il feudalesimo: distrutta l’élite che avrebbe potuto operare per l’affermazione di una borghesia sarda, rimase unicamente in piedi una borghesia che aveva ormai assimilato la piena integrazione ideologica al nazionalismo italiano. Sarà quest’ultima tensione ideale ad esempio a condurre il primo “club” mercantile della Sardegna a condividere il progetto della “fusione perfetta” del 1847, quando il parlamento sardo giunse al suo formale abbattimento a favore di quello cisalpino situato a Torino. All’epoca si riteneva che la fusione definitiva con le istituzioni piemontesi avrebbe consentito un’estensione dei traffici commerciali dell’isola. Il protezionismo italiano avviato a fine Ottocento dimostrò invece il contrario, poiché, come abbiamo già visto su Sa Natzione, questi portò alla chiusura del tradizionale mercato francese in cui l’export agroalimentare sardo era riuscito ad affermarsi. Ed ormai era troppo tardi: la perdita dell’autonomia avuta fino al 1847 non consentì ai parlamentari sardi a Torino alcuna valida opposizione. E chissà quanti ebbero modo di riflettere sulle antiche parole del sabaudo Bogino, secondo il quale quella italiana era la lingua “più opportuna per maggiormente agevolare il commercio ed aumentare li scambievoli comodi; e di piemontesi, che verranno nel Regno, i quali non avranno a studiare una nuova lingua per meglio abilitarsi al servizio del pubblico e dei sardi, i quali in tal modo potranno essere impiegati anche in terraferma” (Cfr. F. Pruneri, 2011).
La realtà fu terribilmente contraria, perché non solo i sardi non recuperarono lo spirito mercantilista probabilmente intrapreso nel mondo antico, ma finirono subordinati all’autarchico mercato sardo-piemontese, comprimendo la fase di espansione dei commerci avviata nell’Ottocento, abbattendo l’accumulo di capitali (il cui credito era fondamentale per la solidità di una borghesia autonoma), nonché subordinando le proprie produzioni agli investitori della penisola.

Ad oggi la costante italianizzazione della scuola sarda viene indicata fra le varie e possibili cause della dispersione scolastica.

Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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    4 Commenti

    • Artìculu bellu meda!
      (Comente totu sos àteros, a nàrrere sa veridade)

      Comuncas faghide atentzione ca b’est unu problema cun sa cumpartzidura in facebook, e non si biet s’antiprima (si còpias su ligòngiu est finas peus).

    • Problema risolto, grazie.

    • ..iscujade s’innorantzia mia ma…non cumprendo comente si potat faeddare de limba italiana in cussos tempos, ( sos chi narant s’articulu )si galu s’istadu italiiidiiioticu non fit bistadu fundadu,…e bi cheriat galu meda cheddas de annos,po lu poder bider fatu,…e s’istadu in essere,…si naraiat Rennu de Sardinna…

    • Pro Peppe: Ca sos Savoia ana italianizzatu sas iscolas derettu, cando ana picatu su Regnu de Sardinna (sa Memoria de su Buzinu est de su 1726), prima chi esseret diventatu Regnu d’Italia (1861).

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