Fra burocrazia, istruzione e fisco: la delinquenza legalizzata

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La disoccupazione avanza, mentre il mondo dell’imprenditoria è sull’orlo del baratro. Burocrazia, carenza organizzativa e gestionale dell’Istruzione unita ad un fisco invasivo sono i maggiori deterrenti allo sviluppo. Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, dal mensile Espansione, non le manda a dire: “Il nostro Paese paga il doppio prezzo di un’organizzazione apparentemente decentrata ma in realtà fortemente centralista. L’ho definita autonomia sfiduciata. […] Insomma, il tema dell’autonomia è vitale per l’Italia e mi sorprende che la politica lo prenda in modo superficiale”. Rocca prosegue parlando del fisco e dell’istruzione, con un occhio di riguardo verso il peso della burocrazia. La vera “impresa” oggi è anche quella di riuscire ad avviare un’azienda a causa delle lungaggini trasversali create dalla pubblica amministrazione. Il presidente ha sostenuto inoltre la necessità di arrivare ad una seria istruzione federale; infine ha criticato la proposta dei “saggi” nominati da Napolitano, che si appresterebbero a benedire un incremento delle competenze esclusive dello Stato, cioè l’opposto di ciò che andrebbe fatto. Stesse dichiarazioni riservate al Corriere della Sera. L’associazione degli industriali sta maturando nuovi orientamenti? Staremo a vedere.
Eppure, a differenza di Rocca non ci stupisce la superficialità con cui la politica tratta il tema del federalismo. La creazione di una vasta burocrazia di Stato, fin dalle origini del risorgimento, fu l’unico strumento per cementare una nazione italiana che nei fatti non esisteva (vedere gli studi di Romanelli). Il posto pubblico, il privilegio, e dunque la sistematica moltiplicazione di una burocrazia centralizzata, furono passaggi ineludibili per coalizzare, non una società virtuosa, ma una società dove la meritocrazia cede il passo all’accomodamento ed alla progressiva spoliazione dei singoli territori, all’allontanamento dei validi imprenditori e dunque all’impossibilità materiale di valorizzare l’impegno. E sempre a differenza di Rocca come U.R.N. Sardinnya non riteniamo che la lotta all’evasione fiscale debba essere un punto programmatico associabile allo sviluppo dell’autonomismo, perché ormai l’evasione può essere interpretata come strumento di difesa contro uno Stato parassitario, cui proprio la struttura centralista consente alla mala politica di perpetuare gli spazi del privilegio, a scapito di tutta la popolazione (pensiamo in ambito regionale al caso dell’ente idrico Abbanoa od ai lavori per il mancato G8 a La Maddalena). Ciò non succede solo a carico delle imprese ma anche dei singoli cittadini, ad esempio in Sardegna alcuni Comuni hanno delegato alcuni disoccupati di recarsi casa per casa per effettuare delle misurazioni interne degli immobili. Lo scopo? Verificare se le cubature dichiarate corrispondono a quelle reali, in tal modo si conterebbe di individuare eventuali abusi edilizi e di far pagare maggiormente la TARES. Premesso che ogni onesto cittadino ha il diritto di opporsi a questa invasione del pubblico nella proprietà privata e che tali delegati non sono neppure dei pubblici ufficiali, è assolutamente vergognoso che tali amministrazioni non si siano dedicate a ridurre il peso di una tariffa delinquenziale (poiché non basata sull’effettiva quantità di spazzatura prodotta ma sulla rapina di un ingiustificato surplus di denaro al contribuente). Al contrario, costoro cercano nuove modalità per incrementare gli introiti, senza avviare procedure di indagine a carico delle società che si occupano della gestione dei rifiuti (vari elementi inducono a ritenere che esista un cartello sugli appalti pubblici), e senza neppure valutare che sarebbe il cittadino a dover essere retribuito per aver fornito materia prima, tramite la differenziata, alle aziende di trasformazione. Ma la Danimarca è lontana. Fenomeni come questo, dalla più piccola amministrazione ed azienda, fino alle maggiori (pensiamo al caso Telecom), sono il massimo esempio dei danni creati dal connubio delle consorterie politiche con piccoli e grandi comitati d’affari. Come segnalato recentemente anche da Luigi Zingales e soprattutto da Carlo Lottieri, si tratta di un problema che attiene tanto alla destra (inquinata dalla presenza socialista), quanto alla sinistra (inquinata dalla classica volontà statalista). I colbertisti italiani, dietro il paravento di fornire servizi pubblici essenziali “nazionali”, hanno in realtà l’unico obiettivo di assicurare le proprie clientele nel quadro di una generale struttura assistenziale del potere. In un simile contesto appare quindi riduttivo cercare nella sola influenza estera le cause del declino industriale italiano. Se alcune aziende non brillano e non sono in grado di competere verso nuovi mercati, non lo si deve tanto all’azione della concorrenza, ma alla rigidità politica che ne ha contraddistinto un basso tasso di innovazione dovuto alla scarsa competenza dei loro vertici. Mentre tutte le altre, vessate da fisco e burocrazia, difficilmente riusciranno a ritagliarsi un solido spazio vitale per i propri affari. Insomma, lo Stato italiano è la causa e non la soluzione dei problemi, occorrerebbe ripensarne la struttura dalle fondamenta, peccato che buona parte della politica sia ideologicamente tarata in difesa di una Costituzione iniqua ed obsoleta. Lo statalismo ha drammatiche ripercussioni anche nella qualità dell’istruzione italiana, il luogo nel quale teoricamente dovrebbero maturare i politici e gli imprenditori del domani. Giorni fa sostenevo che una delle causali dell’arretramento delle università italiane in termini di qualità nei ranking internazionali è dovuto alla scarsa presenza di istituti privati rispetto alla preponderanza del pubblico, una situazione che quindi non produrrebbe adeguata competitività in ricerca e innovazione, creando, al contrario, baronati e nepotismo. Il problema dunque non consisterebbe solo nella cronica assenza di investimenti pubblici in cultura ed istruzione. Alcuni osservatori ritengono che persino la contribuzione pubblica sia fonte di disparità. Ad esempio ben il 60% dei contribuenti universitari, ceto medio e basso, paga le tasse anche agli studenti più facoltosi, in quanto proviene da un nucleo familiare con un reddito lordo inferiore ai 31.000 euro annui. Con un trasferimento di circa 2,5 miliardi all’anno. Alessandro Mongili, con esperienza professionale in California, mi replicava che un approccio ideologico non era idoneo, in quanto, nella realtà, anche le maggiori università private internazionali, ad esempio quelle USA, ricevono ingenti fondi pubblici con cui viene condotta la ricerca. Analogamente a quanto avviene in tutti i maggiori Paesi industrializzati. A questo punto spostavo l’attenzione sui criteri di gestione con cui si sviluppano le differenze fra il modello universitario nostrano e quello statunitense. Se da un lato esistono grandi realtà private come Stanford (che hanno sfornato menti capaci di produrre colossi come Google e Apple), esistono anche realtà pubbliche come Berkeley, dove tuttavia i fondi pubblici servono a finanziare ricerche i cui esiti vengono venduti a privati (pensiamo ai vari brevetti a favore di grandi case farmaceutiche). Comunque si voglia interpretare tale modello, anche la gestione pubblica universitaria in California presenta caratteri nel cui obiettivo finale il profitto è lo stimolo che consente la competizione fra i vari istituti. L’università-azienda è incentivata a produrre innovazione, sia per monetizzare l’eventuale risultato ottenuto, e sia per ricevere prima e meglio di terzi istituti i finanziamenti necessari al proprio funzionamento. Mongili ricordava in seguito che bisogna tuttavia distinguere una realtà composita e non omogenea che caratterizza questi istituti, perché se è vero che anche la gestione pubblica nella cultura USA contempla un utile finanziario, bisogna considerare che al loro interno vi sono specifici team di ricerca e dipartimenti, i quali non di rado lavorano a stretto contatto con il mondo aziendale, destinatario finale di un determinato lavoro. E’ chiaro che in questi termini il privato gode del denaro pubblico, ma il pubblico opera in termini completamente diversi dal modello italiano, quasi al rango del privato.

Senza declinare dunque in termini ideologici, probabilmente dovremmo iniziare a ragionare su proposte di natura federale che svincolino il sistema regionale dell’istruzione, università incluse, da criteri gestionali italici poco virtuosi sul versante della competitività. Perché senza sovranità ai territori e senza competenza, l’Italia del privilegio, del pressapochismo e della delinquenza fiscale, è destinata alla rovina, Sardegna inclusa.

Adriano Bomboi.

- Vedere anche: Economia, lingua e dispersione scolastica? Ministro Trigilia: ‘La politica modella il capitale sociale’ (Sa Natzione, 11-06-13).

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos

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