8 marzo: Margaret Thatcher, femminista sui generis

Festa della donna: quattro anni fa moriva Margaret Thatcher, nemica del vittimismo femminista, che disse di odiare, salì al potere senza la fesseria delle quote rosa, risanò le finanze pubbliche dopo decenni di politiche keynesiane e rilanciò la potenza britannica nel mondo. In Sardegna, terra di pianificazione e assistenzialismo, avrebbe avuto tanti nemici – Di Adriano Bomboi.

Diciamoci la verità, Margaret Thatcher non fu affatto una femminista. Non nel senso convenzionale del termine. Nel corso dei suoi governi, dal 1979 al 1990, la “lady di ferro” mandò in frantumi l’icona del femminismo progressista, quello avvezzo a delegare allo Stato tutta una serie di diritti che una comunità libera dovrebbe esercitare senza l’intermediazione, o peggio, il paternalismo di una pubblica autorità.
E’ in quest’ottica che dovremmo comprendere il “femminismo sui generis” della Thatcher, non in quanto liberale (pensiamo alla repressione dei nazionalisti irlandesi o al dietrofront sui diritti degli omosessuali), ma in quanto conservatore.

In un Regno il cui Capo di Stato è ancora oggi un’altra donna, la regina Elisabetta II, “Maggie” affrontò un Paese in rovina: l’Inghilterra degli anni Settanta si chiudeva con un dissesto economico contrassegnato da un’alta inflazione, con un welfare sempre più dilatato dopo decenni di politiche keynesiane. Dove i progressisti avevano diffuso la favola che la redistribuzione delle risorse in deficit spending potesse aiutare i ceti meno abbienti, in cui invece la povertà si era cronicizzata. Thatcher bandì i sentimentalismi e rispose alzando il tasso di interesse, varando un piano di privatizzazioni e liberalizzazioni, tagliando inoltre i sussidi alle imprese incapaci di stare sul mercato.
Interventi impopolari ma pragmatici e necessari: i suoi governi ridussero il debito pubblico dal 52 al 32% del PIL, l’inflazione venne dimezzata (dal 16 all’8%) e il deficit passò dal 5 al 2%. La stabilità conseguita consentì il rilancio economico, estendendo realmente il benessere sociale (C. Magazzino, 2010).

Viceversa, pensate, ancora oggi Paesi come l’Italia (e la Sardegna) persistono nel seguire programmi diversi, accumulando montagne di debiti che presto o tardi qualcuno dovrà pagare, mentre lo Stato continua ad aumentare il suo peso assistenziale a danno della libera impresa.
Eppure, continuano a sopravvivere due pregiudizi in rapporto all’opera di Margaret Thatcher: uno più datato, dove studiosi e osservatori faziosi tendono a sottostimare gli indiscussi vantaggi prodotti da Downing Street negli anni Ottanta; ed uno più recente, in cui si fanno risalire le cause della recente crisi finanziaria globale alla deregulation in parte varata nello stesso decennio dai governi di Washington e Londra.
A differenza di questa vulgata sociologica, pur con tutti i limiti della teoria monetarista seguita da Thatcher, diversi analisti hanno invece mostrato come le cause della crisi non affondino in una scarsità di regole ma nel suo esatto contrario, cioè nell’eccessiva manipolazione politica tesa a creare dinamiche espansive, nel vano tentativo di dare ossigeno all’economia (tra le pubblicazioni più note in materia, vedere “Meltdown” di Thomas Woods, edito nel 2009, o le posizioni di John Taylor dal Wall Street Journal).

Tecnicismi a parte, chiediamoci quante donne siano balzate agli onori della storia negli ultimi trent’anni. Politicamente parlando, in occidente, ben poche.
Margaret Thatcher continuerà ad essere oggetto di dibattiti per gli anni a venire, e non solo per i meriti conquistati sul campo, ma anche perché la premier britannica seppe ritagliarsi un ruolo di primo piano in un ambiente politico fortemente maschilista. Si trattò di un contesto completamente diverso dal rivendicazionismo femminista degli ultimi tempi, quello del conformismo progressista: un piagnisteo teso a farci credere che il problema culturale della scarsità di donne in politica sia un problema legislativo, da affrontare attraverso provvedimenti normativi ad hoc, come se il sesso e non la competenza sia il discrimine con cui valutare la figura di un candidato o di una candidata ad una carica pubblica.

Niente di diverso neppure in Sardegna, a traino degli intellò italici, totalmente indietro rispetto ad un dibattito simile. E potete scommetterci, di questo passo al governo dell’isola non rivedremo presto nessuna novella “Eleonora d’Arborea”.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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