Il Veneto, la Sardegna e il mito della sovranità monetaria

Di Adriano Bomboi.

In tempi di crisi si è soliti cercare soluzioni e capri espiatori, da sostenere o condannare, per auspicare un cambiamento. Esistono iniziative di pregio così come obiettivi che finiscono per rappresentare strumenti non idonei con cui affrontare i problemi. In questo, veneti e sardi si trovano sulla stessa barca.

Tra le iniziative di pregio si può citare sicuramente il Sardex, una moneta complementare che ha avuto il merito di mettere in comunicazione l’imprenditoria sarda (ma non solo), ottimizzando l’allocazione di risorse tra gli operatori economici coinvolti. Aderire al circuito Sardex significa scambiare beni e servizi, sulla base del credito acquistato tramite questa unità di conto, ottenendo maggiori possibilità di incrociare con efficienza la domanda e l’offerta degli stessi.

Non si tratta ovviamente di una moneta alternativa a quella ufficiale, l’euro; né, data la sua natura, paragonabile ad una moneta elettronica quale il Bitcoin. Quest’ultima infatti è una criptovaluta a diffusione globale che consente il suo trasferimento diretto tra soggetti interessati da una transazione (peer-to-peer). E se il Sardex può costituire una valida integrazione all’euro, il Bitcoin ha il potenziale per mettere in crisi il monopolio statale e sovranazionale della moneta. Ciò è possibile in quanto, essendo nato nel mercato, sottrae alla politica delle banche centrali la facoltà di esercitare avventure redistributive tramite il controllo dell’inflazione. Quantomeno finché il Bitcoin godrà della fiducia dei suoi utenti e finché gli Stati non cercheranno di limitare l’espansione di questo temibile concorrente.

Sfortunatamente, sia in Sardegna che in Veneto esistono forze politiche, più o meno organizzate, che nella loro legittima richiesta di autogoverno finiscono per inquinare le proprie idee attraverso obiettivi ben poco utili alla causa. Uno di questi è rappresentato dall’idea che esercitare una propria “sovranità monetaria” garantirebbe maggiori vantaggi economici rispetto all’euro. Eppure, sia la teoria che la pratica suggeriscono la necessità di abbandonare una simile tautologia: il disastro economico venezuelano rappresenta uno dei più eloquenti esiti di “sovranità monetaria” a disposizione, dove il valore del denaro necessario ad acquistare scarsi beni di prima necessità si è ridotto a quello della carta straccia (sul tema Paul Krugman si è chiuso in un imbarazzante silenzio). Per non parlare dei controversi risultati ottenuti dalle politiche espansive della FED statunitense: nel 2008 ha stampato qualcosa come tremila miliardi di dollari da destinare a banche e occupazione, ottenendo solamente settantamila nuovi posti di lavoro. Significa che ogni nuovo occupato è costato attorno ai 43 milioni di dollari. Una follia neokeynesiana. Ecco perché gli economisti della scuola austriaca non hanno mai smesso di denunciare chi crede che uscire dalla crisi equivalga a drogare un tossicodipendente, quando in realtà si stanno solamente gettando le basi per una nuova crisi che potrebbe avere esiti fatali.

L’euro, come osservava Friedrich von Hayek in un’epoca in cui si affacciava l’idea di una moneta europea, è la rappresentazione in scala più ampia della stessa condotta statale nei riguardi della propria valuta. Perché il problema della pianificazione politica esiste sia a livello statale che sovranazionale. Ad esempio, l’attuale quantitative easing della BCE è uno strumento per la creazione di moneta a debito da immettere nel sistema finanziario ed economico; nel caso di specie, finalizzato a mitigare gli effetti degli imponenti debiti pubblici europei. Debiti che non sono cresciuti per ragioni divine o di mercato ma perché il sistema bancario (pubblico e privato) è legato all’incorporazione nei propri bilanci di questi debiti sovrani. Ne consegue che, in caso di fallimento delle banche coinvolte, come noto, la politica continuerebbe ad utilizzare i soldi dei contribuenti per alimentare questo circolo vizioso, senza il quale perderebbe il potere.

In conclusione, probabilmente gli amici veneti dovrebbero concentrarsi su problemi più immediati, come quello dell’incredibile residuo fiscale che ogni anno viene sottratto all’imprenditoria veneta dallo Stato – stimato da Unioncamere in circa 20 miliardi di euro – per poi essere redistribuito verso Regioni fortemente assistite. Purtroppo, ma solo su certi settori della spesa pubblica, anche la Sardegna paga in termini di deresponsabilizzazione del suo ceto politico questa pericolosa redistribuzione pubblica della ricchezza. Se in Veneto c’è chi si impicca, nell’isola c’è chi emigra.

Sfortunatamente in Sardegna abbiamo ancora indipendentisti fermi al vecchio paradigma gramsciano secondo cui il capitalismo dell’Italia settentrionale avrebbe contribuito ad accrescere la dipendenza economica dell’isola. In realtà oggi sappiamo che lo Stato centrale riesce a danneggiare sia l’economia settentrionale che le Regioni più assistite, sempre più sprecone e incapaci di comprendere che il cambiamento arriverà solo da un maggiore grado di libertà del mercato.

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