Sardismo e grosse koalition: Il 21 marzo 2012 ha cambiato la condotta politica della Sardegna?

Il 21 marzo 2012, grazie all’ordine del giorno del Partito Sardo d’Azione, il Consiglio Regionale ha assunto una posizione storica nei confronti del centralismo italiano perché ha iniziato ad uscire dalle secche della deferenza verso Roma.
Una proposta politica che ha portato la maggioranza (non elettorale ma consiliare) alla seguente domanda: lo Stato si sta comportando lealmente nei confronti dell’isola?
Un interrogativo a cui bisognerà dare una risposta. Come pure bisognerà capire la linea del sardismo, ma di questo parleremo al termine della nostra riflessione.

La voce del Consiglio Regionale ha lanciato un messaggio politico molto importante a cui tuttavia non riteniamo seguano importanti provvedimenti nel breve termine.
La realtà è che, oltre ad una presa di coscienza sui problemi dell’isola, diverse forze politiche consiliari rimangono ancorate a schematismi tattici del tutto avulsi dagli interessi dell’isola. Ad esempio, per manifesto centralismo e per ragioni di schieramento, il PD si è limitato a votare contro ad una proposta arrivata dai banchi della maggioranza. Contrapporsi a un fenomeno in crescita equivale al condurre una guerra fuori dalla realtà. Ed è proprio questa l’impressione fornita dal PD nel derubricare la decisione del Consiglio Regionale come un paravento per le inefficienze della Giunta Cappellacci (che certamente esistono).
E’ ormai evidente a tutti che il PD teme il cambiamento e la predominanza nel centrosinistra allorquando forze come SEL e PSD’AZ potrebbero strappargli una candidatura alla presidenza della Regione, scompaginando definitivamente nell’isola il classico diritto di prelazione alle candidature delle maggiori segreterie del bipolarismo romano e che in varie occasioni è stato già disintegrato alle primarie grazie alla vittoria di candidati alternativi a quelli del PD: questo è certamente un grande merito dell’azione politica intrapresa in Italia da personalità come Nichi Vendola e che ha interessato anche il tradizionale proporzionalismo delle forze post-democristiane di centro.
Alle prossime elezioni ci sarà una grosse koalition a guida sardista? Staremo a vedere.
In quel caso potremmo affermare che il sardismo sta realizzando il senso dell’acronimo della nostra associazione: U.R.N. Sardinnya, cioè Unione per la Responsabilità Natzionale. E non sarebbe fantapolitica inquadrarlo come il preludio di un futuro Partito Nazionale Sardo. Ma i tempi non sono maturi e la realtà è diversa, i particolarismi ed il nazionalismo italiano continuano a caratterizzare la politica regionale e, d’altra parte, solo un robusto percorso culturale e costituente potrebbe condurre alcuni settori delle principali tradizioni ideologiche dell’isola a condividere un simile progetto. Pensiamo allo stesso sardismo, alla grande dimensione ideale della giustizia sociale maturata nella sinistra sarda, o alle componenti riformistiche del popolarismo liberale di centro e di destra. Ammesso e non concesso che i confini siano distinguibili. Tuttavia la slealtà di Stato appare ormai così evidente che di per se è sufficiente a coadiuvare quell’unità di intenti necessaria ad alzare la voce contro il centralismo. E questo sta già avvenendo. Quando si ha l’acqua alla gola, quando disoccupazione e fisco impediscono alle famiglie di sopravvivere e lo Stato grazie a Trasporti e servitù arriva addirittura ad isolare ed inquinare la nostra terra, allora l’ideologia si trasforma rapidamente in pragmatismo (a patto che rimanga nei binari della democrazia). Emblematica in tal senso è la botta ricevuta dal capogruppo regionale del PD Giampaolo Diana durante una accesa manifestazione dei lavoratori sulcitani: è stato l’esito di un metodo obsoleto e propagandistico di condurre la politica, quella che in piazza manifesta assieme alle categorie disagiate ma che nei consigli regionali e nel Parlamento preferisce i tatticismi di bottega alla più ovvia e preferibile assunzione di coesione e responsabilità in sede legislativa. Non ci si stupisca quindi dei tafferugli di un Popolo in difficoltà, nella fattispecie, il problema per il PD non dovrebbe essere Cappellacci o turbare il Governo Monti ma i poveracci che devono mangiare (altrimenti che “autonomismo” sarebbe?).

PD e PDL dovrebbero decidere se intendono seriamente automatizzarsi da Roma, una condizione difficoltosa che porterebbe diversi candidati a non poter più contare sull’appoggio delle segreterie centrali. Ormai in Italia la buona idea di arrivare al bipartitismo per superare l’obsolescenza dello Stato su diversi ambiti è fallita per un motivo molto semplice: per la mancanza di considerazione nei confronti delle diverse specificità territoriali che lo compongono.
Quindi, paradossalmente, proprio le forze politiche libere dalla rigidità del bipartitismo potrebbero essere quelle più idonee a premere per riformare in senso federale una Costituzione vecchia e insensibile alle nuove sfide che legittimamente le realtà territoriali impongono. Ricordiamoci della proposta apparsa a fine anni ’70 in un congresso sardista che prevedeva addirittura la possibilità di trasformare la Corte Costituzionale in un organo federale, al fine di venire incontro alle singole esigenze regionali.

Il PDL dal canto suo si è spaccato sul voto all’ODG anche per via della contesa interna alle fazioni che intendono raccogliere l’eredità di Cappellacci. Mentre qualche ragazzaccio sostiene che i Riformatori abbiano votato contro – non solo perché ritengono la Costituente l’unico mezzo per riformare le istituzioni regionali evitando questi simbolismi – ma anche perché, tra le varie cosucce, ritengono il sardista Paolo Maninchedda (estensore del famoso ODG) come uno dei vari responsabili del mancato election day auspicato dai Riformatori. Quest’ultimo partito infatti è il principale animatore del referendum consultivo e abrogativo sulla presenza delle Province, degli Enti superflui e per la riduzione del numero di consiglieri regionali (noi avremmo preferito abolire anche i costi delle Prefetture).
I Riformatori, non ascoltati, hanno chiesto che il referendum e le prossime elezioni amministrative si tenessero nello stesso giorno al fine di salvaguardare il quorum elettorale necessario.
Non sapremo mai tutti i dettagli, l’unica cosa che sappiamo è che “in giro” ci sono anche troppi partiti sardisti e proprio per evitare simili antagonismi sarebbe bene applicare le stesse soluzioni auspicate per quelli indipendentisti tout court.

Per i partiti italiani in Sardegna c’è poco da aggiungere, non è un mistero che con l’avvento del Governo Monti in tanti si stiano riscoprendo “sardisti” e “autonomisti”, pensiamo alle lamentele che da destra a sinistra stanno arrivando nei confronti dell’eccesso di servitù militari nell’isola o sulla scandalosa operazione oligopolistica di Roma contro la Sardegna nel settore dei Trasporti. E’ facile prevedere che questa ressa dialettica finirà non appena il centralismo delle loro segreterie romane li richiamerà all’ordine.

Come U.R.N. Sardinnya speriamo che questo percorso dia modo allo stesso Partito Sardo d’Azione di ritagliarsi un nuovo ruolo che lo porti con coerenza a non ricoprire due posizioni in contemporanea: quella di opposizione e quella di governo, e in questo senso, la permanenza all’interno della maggioranza Cappellacci ha fatto scuola.
Qualcosa che potrebbe spingere anche i Rossomori verso nuove considerazioni.
Riteniamo altresì utile che il sardismo non perda il suo DNA politico annacquandolo verso le posizioni di alcuni potenziali alleati e che si tenga conto del problema identitario. Ad esempio, difendere la lingua non è vecchio etno-nazionalismo ma rispetto dei diritti umani. Senza scordare il potenziale politico che un tema come la lingua può sviluppare, è il senso di un intervento di replica al sardista Maninchedda dello scorso 5 marzo. Analoghe osservazioni poste da Mario Carboni, responsabile della Fondazione Zona Franca. Il PSD’AZ sarà ben conscio che le operazioni politiche dovrebbero avere finalità strategiche e non meramente elettorali, il partito non potrà tirare a campare per sempre attraverso occasionali mozioni consiliari e risultati legislativi a macchia di leopardo ma dovrà pur contribuire fattivamente all’avvio di un processo riformistico delle istituzioni dell’isola. E siamo certi che non vorrà compiere passi falsi.
In tutto questo c’è da chiedersi dove siano finiti i partiti indipendentisti e che cosa intendano fare. Ma prima ancora ci sarebbe da chiedersi se siano in grado di leggere l’attuale contesto politico. L’indipendentismo deve uscire dalla frammentazione e dal marginalismo politico in cui si è cacciato. Ha ragione il ProgReS nel cogliere le differenze tra la nostra realtà e – ad esempio – quella britannica, ma non tiene conto dell’assenza di coscienza nazionale che attraversa il nostro territorio e che rende oltremodo necessario il dialogo con le componenti della politica italiana. E del resto anche lo Scottish National Party a fine anni ’90 non fu estraneo dalla battaglia per la rivendicazione di un Parlamento autonomo da Londra.

Con l’ODG sardista si inizia a parlare dei problemi concreti, al di là del teatrino della contrapposizione bipolare: mettere in discussione questo Stato non è più un tabù. E d’altra parte, riscrivere una Costituzione centralista non dovrebbe esserlo. Sul tema, è interessante leggere la nota del prof. Michele Pinna, responsabile dell’Istituto Bellieni di Sassari, ma anche la nota di Salvatore Cubeddu (Fondazione Sardinia) dal titolo: “Il Partito Democratico e la guardia al bidone”.
Prevediamo una lunga stagione di crisi di coscienza.

Di Melis R. e Bomboi A.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Nazionalisti Sardi

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