Southern Sudan e Darfur: il genocidio ignorato

“Solo i morti hanno visto la fine della guerra”.
Aforisma erroneamente attribuito dal generale USA D. MacArthur a Platone.

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Nonostante la crisi economica, non tutto in occidente sembra volgere al peggio: se le minoranze nazionali interne agli Stati della vecchia Europa emergono con maggior decisione, altri Stati celebrano la loro indipendenza. Tra questi vi è la Slovenia, indipendente dal 1991, che con un territorio ed un livello demografico simile alla Sardegna, oggi fa parte dell’Unione Europea e la sua sovranità gli permette di potenziare la sua economia rispetto agli anni bui in cui il popolo sloveno fu sottomesso all’ex federazione jugoslava.

Ma nell’opinione pubblica occidentale, quanti conoscono il Sudan con i suoi problemi?
La capitale Khartum è retta da una giunta militare che controlla tutto il Paese, con una popolazione suddivisa in diverse etnie, a loro volta suddivise dalla religione islamica (che secondo le stime più attendibili sarebbe osservata dal 70% della popolazione), da culti animistici locali (osservati dal 25% della popolazione) e dal culto cristiano (seguito dal 5% della popolazione).
Il Paese dell’Africa subsahariana, indipendente dal Regno Unito nel 1956, confina con il Mar Rosso, l’Eritrea, l’Etiopia, ed altri Stati tra cui il Ciad, con cui ha avuto innumerevoli tensioni a causa dei profughi che in fuga dal conflitto sudanese si spostano verso il territorio di N’Djamena (le stime ONU parlano di oltre 2,5 milioni di rifugiati).

La guerra si trascina a fasi alterne fin dal ’55, quando l’occupante britannico rinunciò a promuovere una forma istituzionale federalista che garantisse alle diverse componenti (islamiche al nord ed animiste e cristiane al sud) quella necessaria autonomia che nel più lontano passato aveva consentito forme pacifiche di coesistenza tra le comunità.
Dietro il fermento religioso si celano in realtà gli interessi economici che vedono nelle esportazioni petrolifere (ma anche nelle riserve naturali d’acqua) il pomo della discordia.
La guerra civile scaturita nel corso degli ultimi 60 anni vede oggi opporsi il governo sudanese di Omar Hasan Ahmad al-Bashir al Sud Sudan ed al Darfur per il controllo del territorio. Khartum sarebbe accusata dai sudisti di orrori contro la popolazione, un fatto che ha spinto anche la Corte Penale Internazionale a condannare al-Bashir per genocidio e crimini contro l’umanità, nonostante l’atto non abbia avuto alcuna conseguenza pratica. Il governo sudanese punterebbe sul centralismo, fomentando l’integralismo islamico contro i villaggi del sud e del Darfur al fine di proteggere la fasulla unità del Paese. Una linea tacitamente sostenuta anche dai Paesi importatori di greggio ed altri beni (cotone, bestiame, gomma arabica, etc.) come la Cina, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
Daoud Hari, rifugiato del Darfur negli USA dopo essere scampato alla morte nelle mani dei filo-governativi sudanesi, ha personalmente condotto una battaglia umanitaria e giornalistica che per anni lo ha spinto a vivere sul campo le innumerevoli violenze in corso tra le fazioni. Stando alla sua testimonianza, riportata nel noto best-seller “Il traduttore del silenzio” (Piemme 2008), i governativi userebbero attaccare militarmente le popolazioni inermi (supportati dalle milizie e cavallo Janjawid) per ripulire le etnie ostili al processo di consolidamento accentratore di Khartum. Per contro, gli USA appoggerebbero il Sud Sudan come Stato indipendente in chiave anti-integralista islamica e per le derrate petrolifere contese tra le fazioni. Tra il 9 ed il 15 gennaio 2011 si è tenuto un referendum sull’indipendenza della regione dal resto del Sudan, programmata per il 9 luglio 2011 e riconosciuta con molte resistenze dai filo-governativi (Reuters, 15-01-11 e 07-02-11).
Il conflitto del Darfur in se, altra regione del Sudan ma a maggioranza musulmana, si inserisce di riflesso nel più ampio conflitto tra Khartum ed il Sud Sudan. Ed oltre al problema della desertificazione e della siccità che investe le popolazioni locali, anche in questo caso il governo centrale (al fine di controllare il petrolio) avrebbe fomentato le divisioni interetniche e religiose tra i gruppi nomadi e sedentari del territorio, mentre i Janjawid dal 2003 ad oggi avrebbero esteso le loro incursioni anche oltre la frontiera di confine col Chad, provocando numerosi conflitti a fuoco con i militari di N’Djamena.
Di fronte agli orrori che vengono commessi all’ombra dei grandi media occidentali, tornano alla mente i conflitti in Somalia ma soprattutto in Rwanda. In quest’ultimo Paese l’ignavia pseudo-pacifista dei nostri governi nel 1994 permise il massacro interetnico di 1 milione di persone. Uno dei più grandi massacri dell’era contemporanea di fronte all’Europa dei Voltaire, degli Adenauer ma anche nell’Europa dei tanti improvvisati intellettuali che, anche in Italia, con il loro background razzistico e moralistico ritengono opportuno non impegnarsi nella pace globale, sostenendo la “diversità delle culture, che andrebbero rispettate”, ma scordandosi che nei fatti tali divisioni le abbiamo prodotte noi occidentali durante l’era coloniale.
L’orrore sono i bambini-soldato, quelli che cadono, ma anche quelli che restano in piedi.
Appare doveroso ricordare le osservazioni di Daoud Hari rivolte alla Comunità Internazionale, e più che altro ad ogni singolo cittadino del mondo:

“Ti chiedo di riflettere sul fatto che mentre scrivo queste parole, e probabilmente mentre tu le leggi, c’è ancora gente che viene uccisa, e gente che soffre nei campi profughi. I leader mondiali possono risolvere questo problema, se quegli stessi leader capiranno che la gente è abbastanza interessata da richiamare la loro attenzione. Quindi, se ne hai il tempo, potresti farlo. Perché è inutile correre rischi per dare notizie, se poi chi le legge non agisce”.

Di Corda M. e Bomboi A.

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