Salario minimo: discuterne nel paese dell’analfabetismo economico

Il dibattito di questi giorni attorno alla proposta di inserire il salario minimo in Italia presenta tratti surreali.
La maggioranza di chi lo sostiene ignora alcuni elementi e limiti basilari su cui riflettere.

Quali? Essenzialmente tre:

1) Un salario minimo in questo paese esiste già: sono i contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL). I quali fissano il salario minimo che deve essere erogato a precise categorie di lavoratori. E sono il “vanto” del sindacalismo organizzato.

I salari minimi esistenti, ma anche eventualmente un salario minimo generalizzato che si intende introdurre “all’italiana”, ha e avrà a sua volta altri tre problemi principali: A) non tengono conto dei dislivelli di produttività del paese (più alta al nord, più bassa al sud), con inevitabili implicazioni anche sul costo della vita presente nelle due macroaree. Chiedetevi se gli affitti di Carbonia costano quanto quelli di Milano. A tal proposito, per evitare simili distorsioni, sarebbe stato più utile abbattere la contrattazione centralizzata che ha il perno nel potere sindacale, e decentralizzare la contrattazione, come avviene già nei paesi più civili del mondo, riallineando così i salari al reale livello di produttività e del costo della vita locali. E solo DOPO tale operazione, a limite, discutere di salario minimo. Invece in Italia oggi si discute come se i CCNL non esistessero, o come se l’Italia avesse “distribuito” in modo omogeneo nel territorio gli stessi livelli di produttività di Germania, Francia, Svizzera o UK (UE e non UE). B) Bisogna poi considerare che i salari minimi esistenti vengono comunque aggirati dalle aziende minori, basti pensare ai contratti nel settore della ristorazione o della vendita al dettaglio, dove si dichiarano meno ore e si pagano anche meno rispetto a quelle effettivamente lavorate. C) I salari minimi esistenti non coprono comunque tutte le categorie di lavoratori, che di fatto si trovano nella stessa condizione di debolezza dei lavoratori di cui al punto B, come un lavapiatti, per esempio, assunto in un dato ristorante del meridione.

2) Il secondo limite è quello di stabilire il tetto preciso in cui collocare un salario minimo in rapporto agli elementi che abbiamo menzionato in precedenza, tra cui la produttività per esempio. Pensare di applicare lo stesso salario minimo della Germania all’Italia, come propone qualche delirante politico o intellettuale, rischia di aggravare la condizione del mercato del lavoro e in primis dei lavoratori stessi. Perché se il salario minimo fosse posizionato ad un livello basso, allora non avrebbe alcun senso rispetto alla contrattazione vigente, un puro palliativo. Ma se fosse posizionato ad un livello più alto, com’è nell’intenzione del populismo di sinistra, allora innescherebbe lavoro nero. In quanto le aziende non avrebbero interesse a siglare contratti ritenuti più onerosi. Ciò danneggia sia le aziende che il lavoratore, perché la prima rinuncerebbe a tenere lo stesso numero formale di forza lavoro del passato (tenendone magari una parte in nero ed esponendosi anche al rischio sanzioni); mentre il lavoratore in nero ovviamente perderebbe diritti, come quello alla contribuzione previdenziale.

3) Infine, non si cancellerebbero comunque i tre limiti già osservati nel punto 1 coi CCNL esistenti. Nulla impedirebbe ad un’azienda (minore, quelle a più bassa produttività e che sfruttano maggiormente i dipendenti) di siglare comunque un contratto con un salario minimo per il lavoratore, per poi consegnare meno soldi in busta paga allo sventurato rispetto alle ore effettivamente lavorate.

In conclusione, non siamo ostili al salario minimo in linea generale, ma prima di parlarne in Italia bisogna discutere di svariati altri argomenti a monte per cui l’elettore e il politico medio di questo paese non dispongono delle basi culturali minime per affrontarli.
Basti pensare che in tanti pensano che la produttività riguardi solamente il numero di ore in cui si lavora e si produce qualcosa, e non il quanto e soprattutto il come si produce qualcosa in un determinato lasso di tempo (ossia temi che riguardano la possibilità di investire in innovazione).

Buona fortuna!

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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