Quando la cassa integrazione ‘ruba’ il lavoro a chi non ce l’ha

Avete presente i cittadini onesti che pur fra mille difficoltà cercano comunque di pagare le tasse fino all’ultimo centesimo? In questo periodo di crisi sono diventati insofferenti anche verso i cassintegrati. Ma non si tratta di cassintegrati illustri come la moglie dell’ex A.D. di Meridiana Fly Giuseppe Gentile (dai 5.000 euro al mese e con un marito dalla buonuscita di oltre 22 milioni di euro), si tratta di comuni mortali.
Se la prima categoria provoca rabbia e sgomento, la seconda alimenta l’insofferenza popolare. E’ il caso del Marghine e della Baronia, dove gli ex dipendenti Legler hanno ottenuto un posto pubblico grazie all’impegno sindacale e regionale. Questa misura di reimpiego sociale, sostenuta anche dal sardista Paolo Maninchedda, ha avuto il nobile intento di annullare il volto assistenziale della cassa integrazione. E’ passato cioè il principio che se si prendono soldi pubblici non si può rimanere a casa sdraiati sul divano, con la scusa di aver perso il posto, ma si deve lavorare per la collettività (e dunque presso i Comuni, le ASL ed in altri ambiti di pubblica utilità).
Nonostante la lodevole iniziativa, l’estensione di questa misura ha tuttavia provocato non poche lamentele fra i cittadini, con una indignazione che spesso occupa le chiacchierate delle famiglie in cui la disoccupazione pesa come un macigno e non lascia spazio ad alcuna considerazione fuorché la discriminazione che si ritiene di aver subito. Perché in mezzo a tante persone oneste ci sono anche gli opachi casi di cassintegrati nel cui nucleo familiare vi sono già altre entrate (persino con stipendi pubblici), e di conseguenza, un disoccupato (che magari ha persino un titolo di studio rispetto all’incompetenza del singolo cassintegrato) si pone la seguente riflessione: “Ma guarda quella capra, il marito lavora nella pubblica amministrazione e lei è pure cassintegrata. Loro hanno due stipendi, io che devo mandare avanti la casa nessuno!”

Trovarsi quindi degli analfabeti di fronte al pc di qualche sportello pubblico mentre i giovani laureati emigrano è assolutamente “normale”. Sono i paradossi delle comunità schiavizzate dall’economia assistenziale, quella drogata dal politicantismo statalista in fascia tricolore, dove persino il doppio stipendio, nel momento in cui è spesato dai contribuenti, diventa fattore di emarginazione e contrasto sociale a carico delle fasce più disagiate della popolazione, che a quanto pare non sono solo quelle munite di ammortizzazioni sociali. In questi termini persino il consenso politico che inizialmente i cittadini avrebbero potuto conferire al pubblico reimpiego dei disoccupati si trasforma in un sentimento di segno opposto. E qui mi tornano in mente le parole di mio padre ogni qualvolta racconta la sua esperienza di emigrazione in Germania come dipendente della Opel, la nota casa automobilistica partecipata dall’americana General Motors. Ebbene, nonostante in Germania non fossero presenti confederazioni sindacali forti come quelle italiane, la Opel aveva una propria concezione del welfare basata sull’equità sociale. E quando eventualmente doveva licenziare degli operai, come avvenne anche con la crisi petrolifera dei Paesi OPEC a seguito della guerra del Kippur negli anni ’70, l’ufficio delle assunzioni poneva all’operaio due quesiti fondamentali: “Lei ha una famiglia da mantenere? In casa ci sono altri redditi oltre al suo?” Se emergevano altri redditi, per quanto minimi, il dipendente veniva licenziato, gli si attribuiva un premio ed i relativi contributi previdenziali maturati sino a quel momento. Chi invece rischiava la fame ed aveva la minima competenza necessaria per proseguire il lavoro rimaneva in testa alla graduatoria, e quasi sempre, al suo posto di lavoro.
Nell’Italia del clientelismo invece piove sempre sul bagnato, perché le istituzioni premiano prima di tutto i suoi “adepti”, lasciando fuori tutti gli altri, su cui però gravano collettivamente i costi. E’ la “socializzazione” del privilegio. Un problema segnalato anche dai più recenti studi statistici ed economici sull’evoluzione della spesa pubblica nel bel Paese (sul tema, vedere l’articolo: Le ragioni di economisti e intellettuali a sostegno dell’indipendentismo contemporaneo).

Insomma, lealtà sociale vuole che anche dalle nostre parti chi ha già un reddito in famiglia non dovrebbe aver diritto ad essere spesato dai contribuenti. Infatti, perché mai una percentuale delle sudate tasse dei cittadini dovrebbe finire nelle tasche del parassitismo para-statale? Legge o non legge, sarebbe opportuno mettere mano al problema per aiutare solo chi ne ha veramente bisogno, sindacati italici permettendo.

Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos

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    1 Commento

    • Bravo. Nessuno parla mai della questione in questi termini, eppure credo sia giusto farlo. Nessuno pone l’accento sull’assurdità implicita nel compiere una distinzione fra disoccupato reale e disoccupato fittizio (il cassaintegrato) che ha diritto a due anni e più di copertura all’80% dello stipendio che prendeva prima, un anno di mobilità con relativo indennizzo eppoi la disoccupazione. E tutto ciò mentre il disoccupato reale, non ha diritto proprio a un tubo, fatta eccezione per qualche mese di indennità di disoccupazione, seguita poi, dopo una decina di mesi almeno, dalla possibilità di svolgere Lpu.
      Ma perchè queste distinzioni? In uno Stato democratico ognuno (come in altri paesi europei) dovrebbe aver diritto ad una quota, a vedersi garantito il reddito minimo e le risorse verrebbero distribuite con maggior equità, tenendo conto della situazione familiare. E certo che non è “normale” pensare a famiglie che non hanno nulla e ad altre che invece hanno tre stipendi (di cui due cassaintegrazioni pagate dallo Stato)davvero è una cosa assurda che sta a testimoniare quanto siamo indietro nel nostro paese.
      Ma come si fa a dare uno stipendio quasi pieno per due anni e più a delle persone perchè stiano a casa mentre gli altri non prendono neanche un euro bucato?
      Ma qual’è la reale differenza fra i cassaintegrati e i disoccupati?
      Se io sono un’azienda e non posso più permettermi di mantenere i miei dipendenti prevedendo di dover attingere ai fondi dell’INPS per un lungo periodo, dovrei poter licenziare i miei dipendenti così che vengano equiparati a tutti gli altri, dopodichè, lo Stato penserebbe ad utilizzare i fondi che ora vengono destinati alle casseintegrazioni, per garantire un reddito minimo a tutti, un aiuto, tenendo presente il reddito di ciascuno (è chiaro come il sole, che se tu hai una famiglia con dei figli e sei l’unico a guadagnare hai bisogno dell’indennità al 100% mentre se io sono a casa coi miei ho bisogno di molto meno) e ampliando il meccanismo degli Lpu, facendo passare il pensiero secondo il quale se io vengo pagato non esiste – a meno che non sia un pensionato – che me ne stia a casa per anni, devo fare qualcosa e lavorare.

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