Economia contro classe dirigente? Nò, pastori e meridionalizzazione della politica

Dopo aver caratterizzato da sempre l’economia popolare della Sardegna, anche in tempi in cui manifatture e terziario si sono avvicendati nella formazione del nuovo tessuto sociale del Popolo Sardo, il settore primario dell’agricoltura e dell’allevamento va attraversando una crisi molto grave.
I prodotti Sardi non hanno più una identità ben definita, sono omologati a quelli provenienti dal mercato esterno ed urgono interventi strutturali capaci di superare le emergenze del momento al fine di tutelare le nostre produzioni.
Oggi il prodotto agricolo e pastorale è sottopagato a livelli insostenibili per gli operatori del comparto, ma rischieremmo di fare demagogia attribuendo al solo mercato globale (che pure ha le sue responsabilità) ed alla sola industria (od alla politica) i mali di questa economia.
Il mercato segue le sue regole, tanto chiare quanto efficienti: minor costo di produzione al maggior guadagno possibile. E’ questa una delle cause che ha fatto arretrare il pecorino romano (tradizionale valvola di sfogo dei nostri produttori) in terra statunitense, la quale è stata per un discreto periodo di tempo il core-business dell’esportazione oltre la zona Schengen.
A parte i costi (ved. mangimi ed energia elettrica) ed i problemi connessi al Credito, altro difetto in cui incorrono i nostri produttori è quello di essersi adagiati per anni su un prodotto a “marchio esterno”, ovvero, l’aver pensato di ricondurre al solo pecorino “romano”, piuttosto che a quello “Sardo”, le capacità di trasformazione (spesso situate fuori dall’isola verso terzi operatori) riguardo il volume della produzione. Circostanza che ha automaticamente ridotto i nostri allevatori al ruolo di subalterni rispetto ai centri di trasformazione e distribuzione. Le colpe pertanto non sono solo degli industriali che approfittano di questa condizione, ma dei pastori stessi, che per anni non hanno saputo far tesoro di questa esperienza negativa, coalizzandosi meglio al fine di completare la filiera (dalla produzione fino alla distribuzione).
In questo ha concorso gravemente la miopia politica della nostra classe dirigente, la quale, al posto di risolvere i problemi strutturali (tra cui quello sul versante UE di cui parleremo a breve), ha sempre promesso soldi pubblici a pioggia per fini elettorali (ma anche poiché incapace di proporre soluzioni).
Ma a costoro che importa con migliaia di euro al mese e stando comodamente seduti su una poltrona?
Taluni politici ricordano vagamente il contesto della frase nata da Rousseau e poi attribuita a Maria Antonietta quando il popolo francese aveva fame: “Se non hanno pane, che mangino brioches”…
A conferma del divario tra la classe politica ed il mondo reale.

In un mercato sempre più difficile ed estremamente competitivo (per’altro condizionato dalle industrie del latte in polvere), è necessario ridurre la produzione verso il pecorino romano, diversificarla, coalizzarla attorno a delle nuove strutture consorziali. Siamo coscienti che in questo processo alcuni operatori potrebbero non trovare più spazio, ma se continuiamo con una barca alla deriva, il danno diverrà ancora più spinoso del previsto.
Consolidare la nostra fascia di produttori sul mercato naturalmente non implica l’immediata perdita dei posti di lavoro ma la sostenibilità di quelli capaci di innovarsi e stare sul mercato.
La politica in questa quadro ha dei doveri precisi: da un lato quello di aiutare comunque gli operatori in difficoltà (e non certo promettendo denaro pubblico a vuoto) ma nel rispetto della normativa UE sulla libera concorrenza e del “Patto di stabilità”; dall’altro ha il dovere di capire quanto il cortile italiano sia stretto nella competizione globale per la tutela di questi interessi. Che però, vanno ben oltre il settore primario dell’economia.
Cosa intendiamo? Con riferimento al settore dell’agroalimentare, diciamo che oggi è l’Italia a decidere per la Sardegna a Bruxelles come rapportarsi in questo mercato. La Francia invece dal canto suo è ai primi posti, se non al primo, nella tutela del suo comparto.
Ma le produzioni Sarde non hanno le stesse caratteristiche di quelle italiane. O meglio, ci sono ingabbiate. E con il cosiddetto Patto di stabilità, non possiamo sforare determinati limiti di spesa pubblica.
Eppure, a noi chi ci rappresenta in Europa?
Abbiamo inoltre un “Made in Sardinia”?
Ovviamente non abbiamo nulla di tutto questo.
Dobbiamo spartire il potere economico del settore primario Sardo con i particolarismi italiani del settore in cui siamo subalterni.
La Sardegna ha diritto ad una rappresentazione diretta a difesa e promozione dei nostri interessi. E non condividiamo la caccia alle streghe contro aziende di successo come il salumificio Murru nella contesa sulla provenienza dei capi macellati. Laddove le produzioni Sarde verso questo tipo di aziende non fossero sufficienti, si adegui il volume di produzione destinato alla trasformazione industriale (es. suini di grossa taglia). Ma accusare dei modelli che producono utili è autolesionismo.
Serve inoltre un potenziamento generale dei criteri di tracciabilità (latte e carni di specie diverse) dalla produzione alla consumazione.

E’ chiaro che questi problemi non possono essere risolti nell’arco di una legislatura ma a seguito di serie riforme (non solo settoriali) ma istituzionali.
Le associazioni di categoria, i sindacati e la classe politica stessa, purtroppo, non sono in grado di rispondere a queste vertenze, essendo le une lo specchio degli altri.
Non hanno l’obiettivo di risolvere questi problemi ma di ottenere consenso immediato (possibilmente elettorale), tenendo il produttore sotto la sua parassitaria “protezione”, finché questi non sarà ridotto alla fame.
Il Movimento Pastori Sardi ha saputo tradurre in lotta politica questo malcontento scavalcando il provincialismo centralista della classe politica e sindacale italiana.
Ma non ha saputo capitalizzare questa lotta sul piano sindacale. Molti nodi rimangono irrisolti, e lo stesso MPS è composto da sensibilità che per anni si sono adagiate su questa forma di “meridionalizzazione” della politica limitandosi alla sterile protesta per ottenere denaro senza però investirlo seriamente. Denaro che, una volta bruciato, verrà nuovamente richiesto per tamponare la prossima emergenza: uguale e peggiore della precedente. E senza considerare proprio il fattore comunitario da cui le nostre istituzioni sono escluse in quanto subordinate a quelle italiane in Europa.

E’ vero tuttavia che ai pastori spetterebbero alcune ammortizzazioni sociali sulla falsariga del lavoro dipendente (come nel settore industriale), ma, in attesa che la nostra classe politica intuisca l’utilità delle riforme istituzionali per far pesare l’isola nel contesto globale, non possiamo non ragionare con gli strumenti attualmente a disposizione.
Tra di essi, il rispetto della normativa UE (incluso il regolamento sul “de minimis” in soccorso a chi è in difficoltà del CE. 1535/2007), evitando che l’attivismo delle tante buone persone dell’MPS sia attraversato dall’ideologia fine a se stessa (e magari calamita dell’eversione isolana, come ha recentemente dichiarato l’On. Paolo Maninchedda), con l’obiettivo di far capire che occupare un Consiglio Regionale non equivale all’occupare un aeroporto od una superstrada. Perché il Consiglio Regionale non è altro che una forma di espressività della democrazia popolare nel quale si discute, non dove si esautora qualcun’altro dal farlo.

Per quanto riguarda i recenti episodi di violenza a Cagliari, ha provocato clamore la carica degli agenti di Polizia contro alcuni pastori, ma si deve anche dire che ognuno ha le proprie responsabilità ed esercita il proprio mestiere. Le forze dell’ordine eseguono il loro.
Non ci uniamo all’infantilismo strumentale ed ideologico nel considerare le forze di Pubblica Sicurezza come avversari. Basta!
Se qualche agente o funzionario di P.S. ha sbagliato, si assuma la responsabilità per la propria incompetenza, ed eviti di gettare discredito sul ruolo che rappresenta.
Come bisogna dire che nei disordini dei giorni scorsi ha contribuito la presenza, all’interno dell’MPS, di facinorosi poco interessati al dialogo e più alla rissa stradale, così come vi erano parecchi soggetti più dediti al consumo di alcool che alla soluzione delle proprie vertenze. Allargati a gente che non ha nulla a che fare con il lavoro dei campi e del bestiame. Situazioni non chiaramente visibili dalla posizione in cui si trovavano parecchi pacifici manifestanti.
In tutto questo non ha avuto torto il Ministro per le Politiche Agricole Galan nel sottolineare che la classe politica Sarda ha colto questo malumore col solito provincialismo demagogico: tutti, maggioranza ed opposizione, hanno promesso cose che non potevano mantenere (perché la normativa UE, ma soprattuto il Patto di Stabilità a cui con l’Italia siamo obbligati, non lo consente), e perché, molto semplicemente, i bilanci pubblici non brillano per efficienza. Anche a causa del debito mai restituito dall’Italia alla Sardegna sul caso della vertenza entrate alla Regione. Eppure Galan è lo stesso distinto signore che soccorse il Parmigiano Reggiano ed il Grana ma non il pecorino…
Abbiamo quindi un sistema istituzionale e commerciale che ci impedisce di aiutare i nostri allevatori e di garantirgli una miglior efficienza sul mercato, come abbiamo politici centralisti italiani demagoghi ed incapaci di capire la polveriera sociale in cui sono seduti, proseguendo vecchie inutili politiche. Ed abbiamo una discreta dose di allevatori, anch’essi figli di quella “meridionalizzazione” della politica, dove si pensa che urlare per ricevere denaro pubblico servirà a risolvere tutti i loro problemi. Si tratta di pesanti ritardi culturali belli e buoni.
Ci domandiamo anche come mai il sindacato Sardo (come la CSS) non abbia potuto rappresentare al meglio queste necessità di settore per conto dell’MPS (che evidentemente confonde gli intercolutori centralisti con quelli, sinceri, del nostro territorio). Un sindacato territoriale non dovrebbe poter andare oltre i propri iscritti?
I Sardisti, dal canto loro, oltre a rimarcare la responsabilità di non concedere o promettere più denaro a vanvera (come invece terzi continuano a fare), hanno proposto di abbinare la produzione di energia alternativa in azienda.
Ci auguriamo che le forze indipendentiste di opposizione o non elette, solidarizzino con l’MPS proponendo costruttivamente una linea più ordinata delle rivendicazioni politiche, piuttosto che una strumentale accondiscendenza verso la sterile polemica di piazza.

Ma serve soprattutto FORMAZIONE, MANAGEMENT e PROMOZIONE dei prodotti.

E nel frattempo, l’assessore regionale Andrea Prato invita al dialogo per dare buon esito alla 186, un disegno di legge che dovrebbe dare ossigeno al settore. Il DDL in se, nella sua prima stesura, oltre all’impegno con la finanziaria per un valore di 110 milioni di euro fino al 2013, ha avuto l’obiettivo di valutare la “concentrazione” dell’offerta del latte. Il secondo articolo il rilancio del comparto cerealicolo attraverso la sottoscrizione di accordi di filiera fra i rappresentanti degli agricoltori e quelli dei trasformatori. L’articolo 3 ha previsto aiuti per le aziende suinicole della Sardegna, con priorità per quelle situate in zone ad alto rischio di pesti suine. Gli altri articoli hanno interessato il sostegno al Credito in agricoltura; il rafforzamento delle filiere agroalimentari; gli aiuti in favore dei Comuni e delle Unioni dei Comuni per l’acquisto di macelli mobili per la ristrutturazione di macelli e per la realizzazione di centri di stoccaggio del latte di pecora; la destagionalizzazione del latte ovino; la valorizzazione dell’agnello Igp di Sardegna grazie al finanziamento di un piano di ricerca finalizzato a individuare ulteriori sistemi di tracciabilità anche quando l’agnello è porzionato; interventi per la ricomposizione fondiaria; ed interventi sui Consorzi di bonifica.

Di Melis Roberto e B. Adriano.

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Ass.ne U.R.N. Sardinnya – Nazionalisti Sardi

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    3 Commenti

    • Bravo Ro…. molto interessante il tuo articolo.. grandi belle parole :-)
      …. Sperando che chi lo legga.. riesca davvero a capire e mettere in pratica ….

    • Bene l articolo centra la questione: lasciare il fiore sardo per il pegorino romano ha determinato la crisi delle vendite e il crollo del prezzo del latte. Quindi bisogna tornare al buon fiore sardo creando un marchio made in Sardinya e altrettanti sub marchi territoriali a seconda della particolarità locale (es. gavoi, e zona, marghine, mailogu ecc) fare soprattutto consorzi di produzione e vendita: ma i nostri pastori hanno bisogno di una classe dirigente-manageriale adeguata ai tempi e al mercato. Si dovrebbe fare un comitato spontaneo per lo studio dei problemi di mercato e giuridici che affliggono il settore. Non dimentichiamo che si tratta dei cd fundamental che gli economisti ritengono i settori trainanti dell’economia di un paese. Una classe imprenditoriale che si rispetti, quale è quella dei pastori, ha bisogno di un management adeguato. Quindi al lavoro giuristi, economisti per dare la svolta strutturale all’economia sarda. Spetta prima di tutto alla classe cd intellettuale, e penso ai commercialisti, avvocati, dare il contributo a questo rinnovamento. Io farei questa proposta, bisogna creare una sorta di ufficio del commercio per l’estero sardo per promuovere i prodotti sardi (tutti) e avviare l’iniziativa con la creazione di una commissione di studio per studiare i mercati esteri e non, risolvere i problemi giuridici che s’incontrano a livello di comunità europea e non.

    • [...] è la prima volta che parliamo di “meridionalizzazione” della politica in Sardegna. Si tratta di quella classica tendenza popolare a protestare senza [...]

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