Sa Die: rivoluzioni sarda e americana a confronto, sino al presente

1773: gli americani gettano in mare il tè dei mercantili inglesi come reazione alle vessazioni della Corona inglese.
1794: i sardi cacciano i piemontesi nel tentativo, poi fallito, di ammodernare l’isola.
2023: il presidente Solinas firma la petizione di Coldiretti contro l’innovazione scientifica.

Il 28 aprile di 229 anni fa in Sardegna partì un’operazione più unica che rara: l’idea di poter riformare gli equilibri politici ed economici senza intaccare l’ordine istituzionale vigente. Un’operazione andata in porto solamente agli indipendentisti americani meno di un ventennio prima, e per brevissimo tempo.

Perché? Quali analogie esistono tra la “sarda rivoluzione” e quella americana? E col presente?

Come insegnano i celebri saggi di Alexis de Tocqueville, una delle ragioni che portò al successo la rivoluzione americana, contro la Corona inglese, fu che si trattò, sostanzialmente, di una rivoluzione “conservatrice”.
Sino agli eventi del “Boston Tea Party”, i coloni americani non intendevano cancellare l’autorità della monarchia d’oltreoceano sul proprio territorio, chiedevano semplicemente di non essere vessati dal fisco inglese, che aveva aumentato le tasse, anche perché i coloni americani non avevano una rappresentanza parlamentare a Londra, e la loro voce non veniva ascoltata.
L’idea non andò in porto e tre anni dopo proclamarono la propria indipendenza, che arriverà nel 1783.

Analogamente, anche i sardi non intendevano abbattere l’autorità della monarchia sabauda nel territorio sardo, chiedevano semplicemente una rappresentanza maggiore nelle istituzioni locali. Istituzioni amministrate prevalentemente da funzionari piemontesi, che nel famoso 28 aprile, oggi diventato “festa dei sardi”, vennero cacciati. Dando luogo ad una serie di moti rivoluzionari repressi sia dalle truppe sabaude che da milizie di lealisti sardi.

L’analogia di fondo tra le due diverse e così lontane esperienze fu un orientamento riformista moderato: sardi e americani del tempo ritenevano opportuno non mettere in discussione l’ordine istituzionale esistente, revisionandone semplicemente le cariche (che avrebbero poi a loro volta influito sui processi decisionali, garantendo un certo margine di autonomia utile a preservare gli interessi del territorio). Si pensi alle note “petizioni” dell’epoca. Ma è proprio a questo punto che emergono ulteriori analogie ma anche grosse differenze tra il contesto sardo e quello americano. L’altra principale analogia è che sia in America che in Sardegna esisteva un ceto detentore del potere economico, il cui obiettivo principale era semplicemente quello di tutelare, o se possibile incrementare, gli affari esistenti.
In altre rivoluzioni invece, come quelle di ispirazione marxista, l’élite che detiene il potere economico tende ad essere sovvertita e rimpiazzata da una popolare (e in realtà dai funzionari del partito giunto al potere). Ma tra America e Sardegna scorgiamo differenze abissali: sia nella natura di chi detiene il potere economico, che nel modello economico stesso. Nell’isola vigeva ancora il feudalesimo, dove nobilotti locali traevano profitto dalla rendite terriere. In America invece si era già affermato un potente ceto imprenditoriale, relativamente autonomo dal potere politico, deputato all’export dei prodotti locali. In altri termini, mentre nell’isola si stagnava in un’economia chiusa e di sussistenza, retta da una classe di privilegiati basata su latifondi, in America si viaggiava spediti verso i vantaggi del libero commercio. Con due fondamentali differenze: da noi chi deteneva il potere non aveva interesse a mutare o condividere col resto del popolo la piena amministrazione dell’economia. Viceversa, in America i vantaggi diffusi dal libero commercio consentivano di uniformare le istanze del ceto produttivo agli interessi popolari, che dunque finivano per coincidere (al riguardo, in merito alla composizione popolare del consenso, si consiglia il saggio dello storico Robert Middlekauff, “The Glorious Cause. The American Revolution, 1763-1789”).

Una dinamica fruttuosa in Nord America, che in Sardegna trovò pochissimo terreno fertile e tantissimi ostacoli. Al punto che si può identificare l’ultimo autentico episodio di “rivoluzione borghese sarda” nella congiura di Palabanda, l’insurrezione del 1812 (sorta quindi con presupposti diversi dagli eventi del 1794), guidata dall’avvocato liberale Cadeddu, una sorta di John Adams minore, altro protagonista della rivoluzione americana. Un’insurrezione immediatamente repressa senza un vasto seguito politico e popolare.

Tecnicamente parlando, i fatti del nostro 28 aprile non rappresentarono una vera e propria rivoluzione, né il suo avvio, ma una semplice sommossa, i cui caratteri rivoluzionari sono stati progressivamente estinti sia dalla repressione sabauda che dai sardi stessi. Il cui diffuso modello politico-economico non presentava le condizioni sociali e culturali idonee per promuovere l’indipendenza della Sardegna e l’instaurazione di una Repubblica, a cui ambì una minoranza di sardi (all’epoca, sul modello di quella francese).

Stessa sorte infatti capitò a Giovanni Maria Angioy, funzionario del Regno di Sardegna e tra i primi imprenditori sardi, storico protagonista della seconda fase dei moti rivoluzionari sardi. Arrivò a promuovere un esercito antifeudale (decenni prima che i Savoia stessi comprendessero l’utilità di superare il feudalesimo e diffondere l’istituto della proprietà privata). E teorizzò una Repubblica Sarda militarmente protetta dalla Francia, ma venne sconfitto e abbandonato dai suoi, passando i suoi ultimi giorni in esilio a Parigi.

E oggi?

Luci ed ombre come nel passato.

Le luci non sono poche, ma scarsamente brillanti. La Sardegna del 2023 ha una propria autonomia, i Savoia non governano più l’isola, che a sua volta viene amministrata a livello centrale da un governo democratico, mentre a livello locale è guidata da un’organizzazione autonomista, il Partito Sardo d’Azione.

Tutto questo però non è stato sufficiente a diffondere il benessere o una cultura tesa a creare le condizioni per lo sviluppo.

I sardi, in piena sintonia con la discutibile cultura politica italiana, non si adoperano per formare ed accrescere la propria istruzione, ed offrono continuamente fiducia a politiche che finiscono per cronicizzare i ritardi economici al posto di comprendere le condizioni con cui potrebbero essere superati.
Una cultura politica che ha finito per pervadere anche il Partito Sardo d’Azione, il quale, al posto di promuovere grandi riforme istituzionali, avversa addirittura l’innovazione (che la letteratura economica oggi identifica come presupposto per la crescita della ricchezza). Poiché insegue le ultime mode populiste provenienti dalla penisola, che portano a conservazione e assistenzialismo.

Si pensi, sul piano simbolico, al sostegno del presidente sardista Solinas alla campagna di Coldiretti orientata a bloccare in tutta l’Italia gli investimenti nel settore della carne “coltivata”. Posto che sarà  l’Europa a valutare la bontà del prodotto e non un singolo Stato UE e men che meno una Regione o una petizione ideologica, il fatto indica che i sardi stanno ancora lavorando contro i propri interessi, ostacolando l’innovazione e dunque anche aziende e imprenditori sardi eventualmente interessati a scommettere su questo e altri nuovi settori emergenti. Oltre a ledere il diritto di scelta del consumatore.
Un limite di cui, come al solito, si noteranno effetti e conseguenze solamente a posteriori.

Buon 28 aprile, magari nel 2054.

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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