Un commento al voto italiano, con un occhio alla Sardegna

Com’era prevedibile, con oltre il 26% dei consensi, Giorgia Meloni si appresta a diventare la prima donna premier d’Italia.

Un risultato che dovrebbe far riflettere i cosiddetti “progressisti” di sinistra, ma anche i sedicenti moderati di destra. Perché Meloni non è una Nilde Iotti, ma neppure una Thatcher.
In altri termini, il nuovo governo italiano in arrivo potrebbe essere ben distante dall’ampliare la platea di diritti delle minoranze, e allo stesso tempo distante dalla comprensione delle riforme da portare avanti, soprattutto in ambito economico, che sono necessarie al paese.

A lato i calendiani, con l’unica proposta relativamente liberaldemocratica d’Italia, che si porta dignitosamente appena sotto l’8% dei consensi, raccolti per lo più nell’area produttiva del paese, quella settentrionale. Mentre isole e meridione rimangono drammaticamente ancorati a formule politiche assistenziali (vedere l’ampio sostegno al M5S di Conte, che riesce a rimanere in sella).

Cosa aspettarsi dunque dal nuovo governo?

Come ho sempre sostenuto in questo spazio, ci attende probabilmente l’ennesima mutazione dello spirito democristiano d’Italia. La cultura politica predominante da decenni a questa parte ci consegnerà un governo che galleggerà tra i problemi, senza effettuare significative riforme in grado di affrontare i nodi strutturali, sino alla progressiva consunzione della coalizione di maggioranza.

Un’analisi che oggi, a grandi linee, offre anche Tony Barber sul Financial Times, in un commento sul voto italiano.
Non ci saranno estremismi neofascisti, probabilmente neppure di ispirazione ungherese, e anche questo dovrebbe far riflettere l’infantilismo di quanti, in campagna elettorale, hanno preferito evocare spettri autoritari al posto di contrastare il populismo coi contenuti.
Forse perché pure la maggior parte delle opposizioni non è immune alla tramontana populista, e hanno preferito sfornare slogan vittimistici accompagnati dal solito contorno di spesa pubblica, più o meno in deficit.

Scordiamoci dunque qualsiasi riforma federale di un’Italia centralista a due velocità. Scordiamoci qualsiasi serio investimento in istruzione, e scordiamoci qualsiasi concreta riforma tesa a migliorare la produttività, il bizantinismo fiscale, il barocchismo burocratico e il corporativismo giudiziario.
Tutti temi che, in fondo, non interessano alla maggioranza dell’elettorato italiano. E non perché non avvertano il peso di tali problemi, ma perché manca la cultura per affrontarli con programmi appropriati.

Qualcuno ha capito quali idee di sviluppo abbia un uomo come Letta? Ben pochi credo, ma tanti conoscono i suoi candidati locali, da anni ampiamente strutturati nel controllo di posizioni di sottogoverno, e nell’intessere ampie relazioni clientelari che non liberano vaste aree del territorio italiano dai problemi, ma tendono a cronicizzarli. E questo, almeno in parte, spiega l’alta astensione presente in alcune realtà regionali, come quella sarda, dove maggioranza e opposizione, in barba agli sbandierati principi sardisti, condividono ampie responsabilità nella pessima amministrazione locale (pensiamo al disastro della sanità, solo per citare un argomento di rilievo, o al gruppo di potere stretto attorno alla Fondazione Banco di Sardegna).
Non a caso le alterne fortune del ceto politico che governa l’isola, così come altre Regioni del mezzogiorno, non si devono ai magri risultati nell’affrontare le criticità economiche e gestionali del momento, ma nell’intermediare costantemente nuova assistenza dal governo centrale verso le comunità locali, in un vortice di irresponsabilità che trova nell’ignoranza popolare la sua spinta propulsiva.

Eppure non tutto è perduto, i calendiani della penisola, dicevamo, hanno ottenuto un voto rispettabile, che speriamo venga coltivato, mentre alcune delle forze populiste mediaticamente più esposte hanno visto ridimensionare i propri consensi (come Lega e Forza Italia, con quest’ultima che cede persino candidati a Fratelli d’Italia). Ed al contempo altre sigle di sinistra radicale si sono praticamente estinte da sole (come la stravagante “Unione Popolare” di De Magistris).
Tuttavia, questo non significa che ci siano le premesse per sperare in cambiamenti positivi: la nuova segreteria del PD che si appresta a sostituire Letta potrebbe allearsi nuovamente col redivivo Conte, irrobustendo le fila di un populismo di sinistra che, al pari della destra, non sarà in grado di rendere sostenibile il mare di sussidi che in maniera trasversale si vorrebbe elargire.

Completamente assente del resto qualsiasi riformismo indipendentista sardo capace di alzare la voce. Sia nella componente sardista, come abbiamo visto, che in quella più oltranzista extra-consiliare: quest’ultima appare politicamente inconsistente e ostaggio di bande di sinistra radicale ben lontane da formule liberalprogressiste, europeiste e atlantiste, non minimamente paragonabili alla linea dei più avanzati esempi di Scozia e Catalogna.

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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