Atene? Brexit o meno sarà Londra ad aprire un varco per l’Europa dei popoli

Di Adriano Bomboi.

In un testo appena uscito, destinato a diventare un classico, Adam Grant ha dimostrato come i cambiamenti storici siano spesso frutto dell’anticonformismo. Cioè di una serie di personalità e circostanze in grado di distinguersi rispetto al mare degli eventi, dando un nuovo corso ai processi politici ed economici. Tra questi possiamo sicuramente annoverare il popolo britannico, la cui strenua difesa della propria identità rappresenta ancora oggi, in un’Europa sempre più dirigista, uno strumento di difesa contro un’euroburocrazia sempre più ostile al mercato ed al benessere dei propri cittadini.

Finita la sbornia del populismo di sinistra, gli intellettuali europei sembrano aver perso interesse nel vedere la Grecia come agente del cambiamento, perché si tratta di un Paese giunto fino alla bancarotta a causa di un atavico sperpero della spesa pubblica e salvato in extremis dalla trojka europea a suon di pesanti iniezioni di soldi altrui. Cioè tramite prestiti i cui interessi si portano ben oltre le capacità di Atene di rifonderli. Ma che importa? Il sistema bancario UE, anche in caso di insolvenza, non fallirebbe: il conto verrebbe spalmato a carico dei contribuenti europei.

E così, mentre intellettuali e politici si sforzavano di salvare il “sogno europeo”, o forse solo le proprie poltrone, propagandando l’ineluttabilità della cessione di sovranità dagli Stati a favore di Bruxelles, al contrario, oltre il canale della Manica si verificavano ben tre fattori di novità:

Il primo ha riguardato il referendum sull’indipendenza della Scozia. Che seppur fallito, ha dimostrato come nell’arco di una generazione il vecchio elettorato conservatore sarà sostituito da quello giovane che in minoranza ha sostenuto l’indipendenza.
Il secondo riguarda tutt’ora il relativo benessere dell’economia britannica: relativo perché a fronte di un positivo sistema fiscale in grado di premiare occupazione e investimenti, vi è un forte passivo nella bilancia dei pagamenti a carico della sterlina, su cui potrebbe pesare la debolezza valutaria nei confronti dell’euro e del dollaro.
Il terzo riguarda la conseguente ricerca di maggiori poteri, da parte di Downing Street, con cui arginare i fattori di crisi, tagliando i rami secchi che oggi pesano in rapporto alla specificità britannica. E’ una linea che ha condotto verso il negoziato bilaterale Londra-Bruxelles e ad un prossimo referendum per l’eventuale separazione del Regno Unito dall’Unione Europea.
Vi sarebbe in realtà anche un quarto fattore determinato dal fenomeno degli sbarchi di migranti nel Mediterraneo, ma i cui effetti per Londra oggi sono maggiormente riconducibili ad aspetti di politica interna più che a strutturali elementi di disagio della propria economia.

In questi termini è facile ritenere che il peso e le caratteristiche della Gran Bretagna dimostrano di avere tutte le carte in regola per avviare un lungo ma inevitabile processo di riforma delle istituzioni europee così come le conosciamo oggi.
Il sostanziale status di “autonomia speciale” conseguito dal liberale David Cameron negli ultimi negoziati con l’Europa lascerà ampi margini di movimento al sistema bancario della city, e con la conferma – ma questo non è una novità – che Londra porrà il veto contro un’ulteriore integrazione continentale.
Nel contesto attuale non si tratta di un episodio straordinario, poiché più simbolico che pratico. Quest’ultimo tuttavia rappresenta un piccolo ma importante tassello per una futura Europa dei popoli, in quanto è stato riconosciuto il fondamentale principio che ogni partner ha il diritto di scegliere uno scudo fiscale e difensivo equiparato alle proprie caratteristiche socio-economiche. La scelta rappresenta una pietra tombale sulla testa di quanti per anni hanno sostenuto il mito di un’Europa egualitaria, con un solo (quanto improbabile) sistema fiscale e di sicurezza per tutti. E’ la fine della favolistica visione d’Europa degli Spinelli e dei suoi epigoni, che sino ad oggi ha partorito un’élite (espressione delle cancellerie più influenti), sempre più distante dai popoli degli Stati membri, delle loro economie e con una casta illiberale e spesata dai contribuenti il cui scopo pare ormai essere, giorno dopo giorno, quello di scaricare sui contribuenti europei il costo del proprio potere, anche in termini di speculazione finanziaria.

Inutile aggiungere che la scelta britannica potrebbe costare cara a tutti quei Paesi europei oggi maggiormente indebitati ed abituati ad accasarsi sotto un ombrello più grande pur di ritardare riforme di contenimento della spesa pubblica che oggi non intendono seriamente effettuare. Pensiamo all’Italia, i cui timidi tagli non toccano mai i vertici ed i privilegi dello Stato ma vengono puntualmente scaricati su contribuenti, servizi (inefficienti) ed enti locali.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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    2 Commenti

    • A prescindere da quale sarà il risultato, è da stimare nel Regno Unito il grande, vero livello di democrazia della loro società. Esattamente come nel caso del referendum per l’indipendenza della Scozia, il popolo britannico (o, in quel caso, quello scozzese) ha la possibilità ed il diritto di scegliere il suo futuro, ed il destino del proprio paese. L’autodeterminazione dei popoli è un punto fondamentale del loro modo di vedere il mondo, e questo da quel punto di vista li mette politicamente e socialmente al di sopra di molte altre nazioni europee (tipo la nostra).

    • [...] britannico ha avuto il merito di smuovere le coscienze per quella che potrebbe essere una futura “Europa dei popoli”, in cui ogni partner avrebbe il diritto di scegliere una politica fiscale equiparata alle [...]

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