Su economia e società sarda: ‘Urbani, ma solo nei panni…’

Di Marco Zurru, docente di sociologia economica all’università di Cagliari.

Fino a poco meno di 50 anni fa la Sardegna era, sostanzialmente abitata, vissuta e agita, da contadini e pastori. Una società con un insediamento largamente rurale, piccoli paesi isolati tra di loro, una predominanza dell’agricoltura come attività economico-produttiva, rapporti sociali statici e ancorati a valori e modelli di vita quotidiana che con la cosiddetta modernità nulla avevano a che fare. Una società composta da un insieme di piccole comunità di “biddai”.
Dopo no, almeno superficialmente. La mobilità della popolazione è stata una delle grandi leve del cambiamento isolano: emigrazione verso l’esterno e cambiamento di residenza all’interno dell’Isola. In 20 anni (dal 1950 al 1970) abbiamo perso più o meno il 15% della popolazione, diretta verso più felici lidi nazionali o stranieri. In 30 anni l’Istat ha registrato oltre un milione e mezzo di trasferimenti di residenza, un milione dei quali all’interno dei confini sardi.
Insomma.. due terzi della popolazione ha cambiato luogo dove vivere e, più o meno dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso abbiamo una nuova geografia dell’Isola che si è consolidata: 1/3 della popolazione risiede a Cagliari e nella sua area vasta, un terzo in altri comuni medio-grandi (Sassari, Oristano, Olbia, Iglesias e Carbonia) e1/3 disseminato in centinaia di piccoli e piccolissimi comuni ormai da anni condannati a una grave emorragia di popolazione e a una cronica assenza di nascite.

Anche da qui, da questi numeri, “ne esce” questa faccenda del “cagliaricentrismo”, l’idea che nella città capoluogo si addensino non solo popolazione ma – soprattutto – funzioni direttive, di pianificazione e decisione per luoghi distanti e, spesso, malamente compresi nella loro vita identitaria e capacità di orientare in modo autonomo i propri destini.
Da qui, anche da qui, un sottinteso allineamento tra il fenomeno dell’inurbamento e l’affermazione di una cultura urbana. Davvero, veder crescere nei numeri uno spazio abitativo come Cagliari e la sua area vasta, basta a declinarla come città?
No, non basta. Ché la città è soprattutto cultura urbana, e la cultura urbana è fatta – almeno nello spazio occidentale – di cultura produttiva e non “parassitaria”, come quella di una realtà “terziaria” come Cagliari: circa il 50% della società isolana e della sua struttura produttiva gravita intorno alla sfera pubblica, fuori da qualsiasi prova di confronto concorrenziale, di mercato, di efficienza produttiva e organizzativa. Nessuna verifica di ciò che caratterizza il pozzo profondo da cui si attinge l’acqua della propria identità: la professione e il modo di spenderla, la sua etica.
Ma nonostante ciò (e purtroppo) la Sardegna e Cagliari sono spazi sociali moderni, ma solo nell’epidermide, in superficie. Ciò che di moderno rimane – e su cui si fondano enormi malintesi sulla città e il suo modo di essere – è solo il consumo dei suoi abitanti, gli stili del consumo, i suoi livelli, le aspettative di un tenore di vita e di garanzia di servizi irresponsabilmente elevati se paragonati alle nostre capacità produttive.

Insomma, Cagliari è una città? Sì, ma solo in parte, quella pseudo-sociale, non quella economica. Ché l’urbanesimo moderno, quello che dura a lungo e modifica nel profondo le genti, è fatto di etica del lavoro, organizzazione, meritocrazia e, in definitiva, ciò di cui non siamo stati capaci di costruire nell’Isola tutta: una certa industria. Non quella chimica, di sicuro…

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