Acqua pubblica? Le multinazionali, la corruzione clientelare degli enti pubblici e il monopolio Abbanoa

Cari Lettori,

Se vi dicessero che l’acqua, bene comune, un giorno verrà privatizzata, mercificata e che sarà disponibile solo ai costi di chi potrà permettersela mentre “il resto del mondo torna alla gestione pubblica”, che rispondereste?
Probabilmente la cosa più ovvia: saremmo tutti contrari.
Perché tutti vogliamo che l’acqua sia un bene libero ed accessibile a chiunque.
Ma l’Italia non è “il resto del mondo”, è un Paese dai forti ritardi culturali nella gestione della macchina pubblica. Una macchina che dello spoil system ne ha fatto una impietosa parodia, elevata al rango del più tetro clientelismo politico.
Dall’Italia Giolittiana, passando per il fascismo e la Prima Repubblica, fino ad arrivare ai giorni nostri, scorgiamo tutte quelle strutture che consentono nel territorio ai potentati politici di governare: Sanità, gestione dell’acqua, telecomunicazioni (ormai svendute, non a favore del mercato, ma a beneficio di nuovi oligopoli), scuola, ecc.
Il resto del mondo si è avviato da anni verso vere liberalizzazioni: si è aperto al mercato migliorando la qualità dei servizi offerti ed abbassandone così anche i costi di accesso.
L’Italia invece invecchia, con le sue inadeguate strutture. Perché? Perché il progresso spaventa i furfanti della politica. In esso c’è efficienza e nell’efficienza non è la politica che decide chi o come deve lavorare in un ente più o meno pubblico (alimentando un suo giro di voti), ma sono i manager, sono il mercato, sono la domanda che incrocia l’offerta in un sistema di pesi e contrappesi in cui la legge stabilisce quali sono i confini che la politica non può superare e stabilisce quali sono le sanzioni per l’ente pubblico o privato che non compie il suo dovere.
Crollata la Prima Repubblica nel 1994, in un sussulto di modernismo, l’Italia ha tentato di rinnovarsi. Il sistema della gestione delle acque è stato uno di questi capitoli di intervento.
La normativa Galli riprendeva un discorso più volte interrotto nel corso del tempo e si proponeva di strappare via la gestione dell’acqua ai carrozzoni politici di questo o quell’ente pubblico.
Ma tramontata ancora una volta la possibilità effettiva di separare la parte gestionale dalla politica, è così venuto meno quel criterio di amministrazione di una risorsa come l’acqua che in quasi tutto il mondo ha assunto i caratteri del sistema integrato: ovvero la gestione mista tra pubblico e privato delle reti. In ragione della necessità di garantire la distribuzione dell’acqua con efficienza e con costi ragionevoli per ogni fascia di reddito.
In Sardegna, con la Giunta Soru, siamo passati da una serie di inefficienti mostri pubblici territoriali ad un unico mostro pubblico/privato, il quale ha prevalentemente assorbito la forza lavoro dei precedenti, con qualche limatura a seconda della competenza ricaduta sui singoli distretti attuali.
Il risultato di una tale operazione, come prevedibile, è stato quello di non averne in cambio alcun beneficio, avendo replicato ed inasprito i mali precedenti (del pubblico).
Giunse così la solita gestione politica dell’ente nel Consiglio di Amministrazione; un buco di bilancio senza precedenti; una rete assolutamente inefficiente ed i relativi costi scaricati sulle spalle dei cittadini: non di rado verso famiglie poco abbienti, con bollette esorbitanti per migliaia di euro (che in specifici casi non sono neppure mai state contabilizzate in base al volume idrico erogato).
Neanche la più vorace delle multinazionali dell’acqua avrebbe saputo fare danni simili.
Dall’Adiconsum di Oristano, Giorgio Vargiu ha recentemente invitato alla protesta contro bollette (pensate) arbitrarie di oltre 4.000 euro (Fonte: La Nuova Sardegna, 24-08-2010).
Avrà le sue buone ragioni dunque il presidente della Provincia di Nuoro Deriu a protestare contro Abbanoa, molte meno invece nel momento in cui prospetta un ritorno agli enti precedenti (Govossai, Esaf, ecc). O forse, senza dubitare della buone fede del sig. Deriu, la politica ha sempre le sue ragioni…
Dopotutto, alle ultime elezioni i grandi partiti italiani hanno tenuto il loro “giro di prebende” per il rotto della cuffia. Partito Democratico incluso. Dunque, per consolidare il loro potere hanno bisogno di moltiplicare ancora gli enti. Altrimenti come potrebbero mai garantirsi nuovo consenso elettorale e consolidarlo senza quel “valore aggiunto” rappresentato dal clientelismo che colma i limiti di una vuota propaganda in cui gli slogan sostituiscono i programmi per lo sviluppo?
Va letto così, forse – e ripetiamo, forse – il magro dibattito tra Deriu e Carlo Mannoni (quest’ultimo uno dei padri di Abbanoa sotto la Giunta Soru) nel quale il primo sostiene dei referendum auto-promossi per “abbattere l’idromostro”, ed il secondo vorrebbe dare un volto umano al medesimo idromostro le cui colpe (magari, ripetiamo, magari) si sarebbero incancrenite con la Giunta Cappellacci…Così, mentre il “Soriano” Mannoni difende la sua creatura, il “Margheritino” Deriu la disdegna. Su una cosa concordano: “il privato è la reincarnazione di Belzebù”.
Entrambi però non ci parlano neppure dei “parcheggi di clientele” rappresentati dalla giungla dei consorzi di bonifica ramificati nel territorio.
Se questo dunque è lo spessore culturale con cui si affronta la materia (uno spessore molto politico, miscelato alla contestazione al centrodestra e con la bega interna al PD)…siamo veramente messi male.
A dare man forte a questi piccoli potentati di Comuni, Province ma anche Regione, con una rete italiana che perde oltre un terzo dell’acqua erogata e con punte del 70% di perdita in alcune amministrazioni, arrivano i diversi promotori di alcuni referendum (su scala nazionale italiana) per “tenere” l’acqua pubblica.
I referendum sono palesemente ideologizzati: confondono l’acqua pubblica (che nessuna normativa privatizza, neppure il decreto Ronchi) con la liberalizzazione delle reti idriche (aspetto del tutto normale in qualsiasi parte del mondo). Si tratta di informazione ai limiti della mala fede.
La gestione pubblica (acqua, reti, distribuzione e disservizi inclusi), è tale sono in alcuni regimi come l’Iran e la Corea del Nord. Ed in alcuni casi Sudamericani.
Tali promotori del resto, a sostegno delle loro tesi, ripetono a iosa alcuni luoghi comuni ed alcuni esempi non certo rappresentativi dei benefici di una (seria) gestione integrata.
Ad una certa becera ed obsoleta cultura statalista nella quale il privato sarebbe sempre e solo “un nemico del Popolo”, si affiancano discorsi del tipo: “A Latina le multinazionali hanno accresciuto il costo della bolletta”, oppure: “ A Parigi stanno tornando all’acqua pubblica”.
Considerando che a questi “esempi” ne aggiungono pochi altri, e che spesso non si spiega che proprio a Latina è il pubblico ad avere il 51% del pacchetto azionario della gestione idrica, ancora meno si spiega che la Francia è ben lontana dal rendere pubblica la gestione delle reti.
Pensate, in alcune amministrazioni del meridione d’Italia il privato è già attivo, ed ha i bilanci in rosso (tanto quanto il pubblico). Dove stia quindi il “business a prescindere” sull’acqua rimane un mistero.
Come se poi 3 o 4 esempi possano suffragare una realtà che vede milioni di enti in tutto il pianeta fare ricorso alla gestione integrata per l’espletamento dei servizi idrici.
Piuttosto, il problema che abbiamo in Italia, rispetto ad una gestione relativamente discreta del servizio a livello internazionale, è proprio l’assenza di una legislazione mirata alla tutela dei diritti degli utenti ma anche degli investitori. Servono efficienti organi di controllo.

La cosa più singolare di questa situazione è che, essendo una parte del Nazionalismo Sardo ancora fortemente ideologizzata, al posto di avversare il parassitismo “capitalista” e clientelare dei partiti italiani proponendo la liberalizzazione (che di per sé non significa solo dare al privato un appalto ma anche ad un terzo soggetto pubblico), condivide un ritorno al passato. Avvallando quindi il potere dei partiti che impediscono ai nostri di guardare al progresso. Perché all’intrico politico spesso si somma quello sindacale, vero e proprio braccio motore del primo nella società.
Certamente non pretendiamo che, nell’eventuale fase di una vera liberalizzazione, chi ha già assunto un posto di lavoro (in base a comprovata professionalità sul campo) vada sulla strada. Ma non si può neppure pensare che l’efficienza di un servizio debba essere puntualmente trasformata in un becero “stipendificio” a carico dei cittadini.
L’aspetto drammatico è che uno dei referendum proposti per la “tutela dell’acqua pubblica” afferma di voler vietare anche le gare di assegnazione degli appalti…Praticamente, come nei regimi, a quel punto sarebbe direttamente il piccolo potentucolo di turno ad alzare la cornetta del telefono per assegnare direttamente il lavoro al clientes del momento, saltando la grana di dover effettuare un trasparente bando di gara per aggiudicare la gestione del servizio all’offerta più competitiva sul mercato.
E noi, come liberal-democratici, a questo gioco non ci vogliamo stare.

Di Bomboi Adriano e Corda Marco.

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