Morte e miseria. Pensieri sulle immagini di guerra

“Solo i morti hanno visto la fine della guerra”.

George Santayana, 1863-1952.

Chi ha visto la distruzione dal vivo non la divulga, al massimo la racconta. Posto che non cerchi di allontanarla, poiché il suo spettro aleggia nelle notti insonni della sua vittima, inseguendola per qualche angolo buio anche durante il giorno.
L’insensibilità della nostra società ha raggiunto vette inesplorate. La morte ci passa sotto gli occhi ogni momento. Oggigiorno in un social network si può passare dalla lettura delle delizie di una ricetta da cucina fino a scorrere le immagini di bimbi torturati e uccisi in qualche lontano teatro di guerra. E forse è proprio la lontananza ad appesantire l’insensibilità nel divulgare la morte. Morte che si trasforma così in macabro spettacolo per voyeuristi annoiati e a caccia di qualche sensazione con cui dare un senso al proprio moralismo. Perché quando la notizia è già arrivata, e ad esempio è noto che vi siano dei morti sotto ad un bombardamento, la conseguente esibizione dei cadaveri non serve a liberare dalla paura chi è rimasto in vita fino al prossimo bombardamento. Divulgare il sangue non ha quindi lo scopo di aiutare i più deboli ma alimenta unicamente il conflitto della politica che ha contribuito a trasformare esseri umani in trofei per internauti della domenica.
E poi pensiamo a quella che un tempo veniva chiamata “pietà per i defunti”, un lontano ricordo. Oggi una sana etica personale dovrebbe poter spingere ogni piccolo blogger o semplice curioso a coprire almeno i volti delle immagini coi defunti. Statene certi, chi è morto, se potesse, scambierebbe volentieri il suo posto con il vostro. Con voi che scorrete il tasto del mouse mentre con l’altra mano fate gesto ai vostri congiunti di venire a osservar quali prelibatezze scorrono sullo schermo: panna, tagliatelle, gamberi, intestini, sangue, cervella. Cervella salate, con una spruzzatina di intonaco, cemento e limone. Sono gli ingredienti necessari per confezionare un dibattito sul menu, polemizzando sulla quantità dell’orrore piuttosto che sulla sua qualità, quella da nascondere a chi ha il diritto di non veder urtata la propria sensibilità.
Il sangue alimenta anche le incomprensioni, e come ricorda Adriano Sofri, fra i contendenti forse vince chi ottiene più cadaveri, ma perdono tutti.
Ecco allora la domanda: in cosa potrebbe consistere l’etica di chi si accinge a fare informazione sulle grandi tragedie internazionali? O meglio, con quale spirito possiamo difenderci dalla miseria intellettuale che sconfina nel cattivo gusto? Penso con quello di raccontare, perché non significa voltarsi dall’altra parte per non vedere. Ma anche quello di saper fare a meno dell’orrore se non necessario, perché significa aver tenuto qualcosa che un tempo chiamavamo umanità.

Adriano Bomboi.

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