Fiscalità: Quali posizioni per la zona franca?

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Agli albori di una nuova legge regionale sui prodotti Sardi: che ci auguriamo abbia ulteriori sviluppi con riferimento ai mercati esterni e non solo interni, stavolta ci soffermeremo invece su un tema spesso colpevolmente lasciato in ombra.

Articolo 12 dello Statuto Autonomo della Sardegna:

Il regime doganale della Regione è di esclusiva competenza dello Stato.
Saranno istituiti nella Regione punti franchi.

Quando si parla di mediocrità delle classi dirigenti, in Sardegna non si può affatto ignorare l’articolo in questione.
Se le lamentele per l’inadeguatezza dell’attuale statuto regionale ormai montano nel dibattito politico fino alla lecita necessità di riscriverlo, minori sono le osservazioni sullo stato di abbandono in cui versa quello corrente.
D’altra parte, strano ma vero, esistono addirittura consiglieri regionali che non hanno mai completamente letto la carta speciale dell’isola:
L’istituto della zona franca è dunque per i più un tema anonimo o talvolta (a torto) considerato superato.
Si tratta invece di un ottimo strumento che consente di sviluppare maggiori possibilità di investimento perché permette di garantire un regime fiscale assolutamente positivo per gli operatori economici che vedono dunque sottrarsi il normale carico fiscale altrimenti presente.
Tra gli unici e ultimi provvedimenti in materia ricordiamo il polveroso accordo tra la vecchia Giunta Palomba ed il vecchio Governo D’Alema, ma anche il curioso intervento della Giunta Soru che in accordo con l’allora Governo Prodi identificò alcune zone franche – di matrice urbana – dalle quali tuttavia risultavano (e risultano) assenti le zone economicamente più disagiate, come il Nuorese.

Decisioni che pertanto si soffermavano sull’incidenza demografica tralasciando l’impianto generale dell’istituto della zona franca, la quale, a livello internazionale (e soprattutto in Europa), mira a ridisegnare il tessuto socio-economico in cui viene applicata, potenziando l’economia e dunque per logica conseguenza anche la permanenza sociale nel territorio.

I porti franchi sono oggi uno dei migliori strumenti economici su cui far leva per lo sviluppo e sono applicabili (con il placet dell’Unione Europea) a partire da realtà articolate e complesse fino ad entità socialmente minori per incidenza demografica (es. Andorra). Ricordiamo, nella Repubblica Italiana gode di regime fiscale differenziato la Val d’Aosta.

La Sardegna del 2010 arriva dunque in forte ritardo e completamente impreparata nell’avvio della zona di libero scambio Mediterraneo con un sistema fiscale non idoneo e non competitivo con gli altri operatori dell’area europea meridionale e dell’area settentrionale africana.
L’aspetto più grave su cui viene generato questo ritardo ricade ovviamente sulle spalle della politica che possiamo sezionare su 3 livelli:

Il primo (in ordine di gerarchia amministrativa) ricade come responsabilità non sull’Unione Europea ma sul Governo Italiano, pressoché inesistente verso le nostre necessità territoriali in materia;

Il secondo livello di responsabilità ricade sulla classe dirigente politica e sindacale Sarda (con le sue articolazioni parlamentari), la quale conosce poco e male lo strumento del porto franco e quindi non ha sufficienti peculiarità culturali per far fronte alle sfide che lo sviluppo impone;

Il terzo, ma non meno importante, ricade sulle spalle della politica territoriale (indipendentista ed autonomista), le cui divisioni, le vuote ideologie e l’assenza di un credibile percorso amministrativo, non consentono di difendere e di divulgare l’utilità di questa pratica di politica economica nel quadro di una maggioranza di governo regionale.

L’isola rimane dunque vittima di un sistema industriale ormai obsoleto nei mercati della globalizzazione, caratterizzato da imprese ad alto tasso di capitali con massiccia capacità occupazionale ma scarsa versatilità ed innovazione.
Se la rimozione dell’IVA e più in generale la defiscalizzazione di alcuni comparti (tra cui i carburanti) non rientrano nelle linee guida dei nostri movimenti territoriali, ci domandiamo da dove parta e con quali strumenti legislativi quel mitico percorso di educazione e sviluppo strutturale alla/della sovranità Sarda. Senza le basi economiche infatti, viene meno tutto il resto. Non si può pensare di raggiungere il progresso collettivo solo protestando per una mancata infrastruttura stradale o solo puntando l’indice contro enti gestiti dagli “amici degli amici”. Uscire dalla cultura dell’assistenzialismo e dell’indignazione fine a se stessa significa inquadrare punto per punto l’oggettività degli strumenti a disposizione per ambire alla crescita.

Riteniamo che la Sardegna debba adottare il porto franco su diverse pertinenze economiche (non necessariamente caratterizzate geograficamente) ripartendo la misura su diversi settori del primario, del secondario e del terziario al fine di agevolare le produzioni interne ma anche la capacità di attirare capitali esterni riqualificando interi comparti (vedasi ad es. il sistema aeroportuale, ed il turismo). L’insieme delle misure per cui il commercio potrà altresì assorbire l’enorme mole di disoccupazione che il vecchio dirigismo statalista ci ha rovinosamente posto davanti e che rischia tristemente di espandersi nel medio-breve termine.

Sfortunatamente i tempi della politica italiana (e Sarda) non seguono quelli dell’economia. Eppure, prima ancora che si possa redigere un nuovo statuto regionale o applicare quanto già nelle nostre competenze, sarà prioritario un abnorme impegno culturale prima che politico.

Grazie per la cortese attenzione.

Di F. Maurizio e B. Adriano.

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