Una battaglia dopo l’altra, in Italia

Avete visto l’ultimo chiacchierato film di Leonardo Di Caprio, Sean Penn e Benicio Del Toro?

Diversi gli spunti di riflessione – per l’America e per l’Italia – offerti dalla pellicola diretta da Paul Anderson e ispirata al romanzo “Vineland” di Thomas Pynchon.

In tempi di trumpismo, lo spettatore distratto potrebbe classificarla come l’ennesima pellicola “woke” tipicamente inserita nella retorica dello scontro politico americano. Ma in realtà offre un taglio critico, tanto della cultura “leftist” che infiamma il pubblico giovanile, quanto di quella conservatrice più adulta che brama “ordine e giustizia” contro ogni destabilizzazione sociale. E offre una riflessione che potrebbe essere utile anche a noi spettatori europei.

La trama ruota attorno a dei giovani rivoluzionari, vagamente ispirati dalle sinistre francesi degli anni ’70, che combattono la repressione del governo federale contro i migranti latinoamericani (segnalo che il film ha iniziato ad essere realizzato un anno prima dell’elezione di Trump).

Ma non è questo in realtà il messaggio principale della trama, perché il regista inizia a demolire quasi immediatamente l’immagine dei suoi protagonisti: il giovane rivoluzionario (Di Caprio), nonostante si presenti come un “gran combattente”, è in realtà un pavido, confuso e pigro consumatore di droghe, la cui figura ricorda più il “Drugo” di Big Lebowski che un inappuntabile ed eroico Che Guevara dei tempi moderni.
Il suo antagonista (Sean Penn), è una sorta di caricatura del sergente maggiore Hartman di “Full metal jacket”. Impersona un duro ufficiale che brama l’accesso ad un’élite di suprematisti bianchi ben infiltrata nel governo federale, ma in realtà si invaghisce subito della donna afroamericana del giovane rivoluzionario, senza neppure ammettere a se stesso la contraddizione tra le pulsioni della propria sfera privata ed il ruolo pubblico ricoperto nella società.
La donna afroamericana in questione è anch’essa una donna che si presenta in termini di forza, coerenza e inflessibilità, ma cede subito all’avversario, e finisce ad occuparsi di se stessa scordandosi tutto l’altruismo di cui si era fatta paladina. Assolto il suo ruolo narrativo, non la vedremo praticamente più per il resto del film.

Più coerente il personaggio interpretato da Benicio Del Toro, un istruttore di arti marziali che opera nel mondo dei migranti clandestini, e che funge da spalla occasionale per il maldestro rivoluzionario Di Caprio, più affascinato dal passato di quest’ultimo, o dal mito che rappresenta, in contrasto alla goffaggine e all’ingenuità da cui cerca di proteggerlo.

La giovane figlia di questi sconclusionati “rivoluzionari” rappresenta la speranza finale offerta dal film allo spettatore, perché mostra una nuova generazione disposta ad intraprendere battaglie si spera più costruttive di quelle dei propri genitori, per arrivare ad un mondo migliore.
Ma siamo sicuri che andrà proprio così?

E qui veniamo alla critica, ne ho due, una “americana” e una “italiana”.

Nonostante il buon lavoro del regista che non fa pesare neppure le due orette e mezza del film – non da Oscar a mio avviso, ma di questi tempi si da l’Oscar anche per prodotti inferiori -, questi inciampa comunque su un espediente narrativo fallace.
Quale?
A differenza di ciò che viene esposto nel film (i giovani che si ribellano all’oppressione istituzionale), negli USA in realtà anche la cosiddetta “cultura woke” non nasce e non si sviluppa unicamente come reazione dal basso contro l’establishment, ma è stata ben accompagnata, supportata e finanziata dall’alto, ossia dalla galassia istituzionale del Partito Democratico e dei media progressisti nel corso degli anni.
Noi europei non lo comprendiamo perché non l’abbiamo vissuto, quantomeno non negli stessi termini. Ma se oggi c’è stata un’emersione del populismo in salsa repubblicana, lo si deve in parte anche al populismo di sinistra che ha contribuito a creare un generale clima di censura nella ricerca di una società perfetta e progressista. Mi riferisco alla “cancel culture”, polarizzatrice di animi.

E qui veniamo dunque, infine, alla critica della cultura politica italica.
Anche in Italia oggi abbiamo opposizioni politiche e sindacali che, al posto di parlare dei problemi primari delle persone, queste strumentalizzano battaglie – anch’esse importanti -, ma che hanno l’unico scopo di produrre agitazione e malcontento popolare verso la maggioranza, senza affrontare alcuna seria riforma strutturale condivisa per uscire dal pantano.

Siamo pertanto giunti al paradosso per cui, in un’Italia dai salari tra i più bassi del mondo occidentale, determinati da scarsa crescita della produttività, il sindacato riesce a portare più persone in piazza non per questo motivo, ma per la causa palestinese.

Come se non bastasse, questa irresponsabilità politica ha la capacità di riportare alla ribalta frange ideologiche minoritarie, ma che pensavamo defunte nel passato degli anni di piombo.
Si pensi ai giovani, accompagnati da degli adulti, che ieri nelle piazze circolavano con uno striscione inneggiante al terrorismo di Hamas del “7 ottobre”.
Come se un torto, quello operato da Israele negli anni scorsi o anche la spropositata reazione su Gaza, giustifichi il ricorso al sangue e il massacro di un migliaio di civili israeliani inermi quale quello del 7 ottobre 2023.

Sarebbero queste le battaglie verso un mondo migliore? Ripetere gli errori dei progressisti del passato?
Ne dubito fortemente.

Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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