Attenzione, parte la riscrittura della nostra legge Statutaria
Cosa sta succedendo nel Consiglio Regionale Sardo?
Si sta riscrivendo lo Statuto speciale della nostra Autonomia?
Non esattamente.
Andiamo con ordine e cerchiamo di fare chiarezza su alcuni aspetti, per poi parlare degli argomenti di alcuni ex presidenti che sono intervenuti al riguardo: Mauro Pili, Francesco Pigliaru, Christian Solinas, Renato Soru, ed altri.
Lo scorso 7 agosto, mentre i sardi stavano sotto l’ombrellone, il Consiglio Regionale, tramite l’ordine del giorno n. 57, ha varato una commissione speciale per la redazione di una proposta di legge statutaria.
Tale legge statutaria tuttavia non mira a cambiare integralmente lo Statuto autonomo o ad esporne le innovazioni alla luce della c. d. “legge Calderoli”, ma ha due sole finalità.
- La prima è che si occuperà solamente delle materie relative all’art. 15 dello Statuto autonomo. Ossia degli organi della Regione (Consiglio, Giunta e Presidente). Scordatevi dunque una revisione strutturale di materie quali la fiscalità, per intenderci, o i trasporti. Pertanto, alcune delle materie che più riguarderebbero l’economia sarda non sono state messe sul tavolo. Manca il tacchino sul piatto.
- La seconda finalità invece cerca di agguantare proprio il tacchino, ma si accontenta delle patate. Perché il lavoro riguarda solamente le eventuali nuove norme di attuazione da introdurre per valorizzare l’autonomia esistente.
È un lavoro utile?
Si e no.
Si, perché la Regione Sardegna è tra quelle che meno si è avvalsa della facoltà di valorizzare il proprio statuto attuandone ampie parti, ma non è detto poi che tale lavoro arrivi a compimento. No, perché il nostro territorio presenta gravi e multifattoriali ritardi socio-economici che non possono essere affrontati solamente con delle semplici norme di attuazione degli scarni poteri esistenti.
Ne consegue che l’attuale ceto politico non dispone degli strumenti culturali per capire le ragioni del nostro sottosviluppo, o se li comprende non intende comunque imbarcarsi, per varie ragioni, in un lungo ma inevitabile confronto con Roma per risolvere i problemi. Confronto che peraltro aiuterebbe anche l’Italia intera ad uscire da una scarsa crescita.
E qui arriviamo ai contenuti esposti in commissione da degli ex governatori, soprattutto Mauro Pili.
Questi per esempio ha sostenuto che non si debba riscrivere lo Statuto, sia perché “non necessario”, a suo avviso. Sia perché “basterebbe introdurre delle norme di attuazione” (che però è proprio l’oggetto del lavoro della commissione, ma lui ne parla come se fosse il primo o l’unico a proporre l’argomento). E sia, infine, perché a suo dire in questo momento a Roma non ci sarebbe un governo “amico”, ma una tendenza centralistica in atto da parte dello Stato.
Sarebbe anche interessante sapere, da parte sua, quando mai ci sarebbe stato un governo “amico” a Roma per la nostra autonomia, o quando mai ci sarebbe stata una “tendenza federalistica” da parte dello Stato. Probabilmente solo con la riforma del Titolo V° della Costituzione Italiana di oltre vent’anni fa, peraltro realizzata male e non realmente federalista.
Ma a parte tutte le roboanti ovvietà esposte da Pili, il nostro populista ha proposto pure di realizzare un fondo di compensazione statale per affrontare la condizione di insularità della Sardegna.
Traduzione? Pili propone di ridurre la distanza dalla penisola italiana, non tramite nuove competenze alla Regione, che possano far crescere l’economia locale, ma tramite nuovo assistenzialismo. Che poi è sempre stato il vero e unico obiettivo di tutti coloro che hanno sostenuto l’idea di re-inserire la definizione di insularità in Costituzione.
Curiosamente, questa idea di Pili soddisfa pure alcuni sedicenti indipendentisti, che così si terrebbero la discutibile autonomia attuale, con un aggravio della già controproducente politica assistenziale attuata nell’isola da questa o quella maggioranza unionista di turno.
Ovviamente non sto sostenendo che la distanza da altri mercati non comporti dei costi per le nostre imprese locali, ma è certamente sbagliato ritenere che questi costi debbano sempre e solo essere coperti da un’autorità centrale, che tuttavia non ci permette di sviluppare altre competenze per crescere autonomamente.
Importante precisazione: come sostengono alcuni amici di “Azione”, di “Ora!” e del “Partito Liberaldemocratico”, è assolutamente vero che le Regioni, e spesso soprattutto quelle autonome come la nostra, hanno abusato dei propri poteri per dilapidare spesa pubblica, diffondendo la peste dell’assistenzialismo e del clientelismo per riprodurre il potere delle classi politiche locali. Il che spinge vari riformisti a vedere nel centralismo una soluzione a tale disordine.
Ma è proprio per questo motivo che una seria riforma dello Statuto regionale non dovrebbe includere solamente nuove competenze e nuovi diritti, ma anche doveri nei confronti dell’uso della spesa pubblica da parte di tutte le Regioni. Più facile a dirsi che a farsi.
Insomma, se in quest’isola vogliamo realmente avere un futuro, ci servono più competenze e più responsabilità per fare poche ma essenziali cose: per esempio potenziare la nostra istruzione/formazione e dunque innovazione e produttività; per esempio sviluppare un fisco umano che ci consenta di attirare nuovi investimenti, e per esempio evitare di sperperare i soldi pubblici per sostenere settori, soggetti e avventure in perdita.
Pili cerca di dribblare il problema aggiungendo un’altra proposta: realizzare una zona franca integrale per le produzioni realizzate in Sardegna, anche avvalendosi del concetto di “ultraperifericità” assegnato dall’UE ad altre isole.
E qui sorgono pesanti contraddizioni: Pili non vuole riscrivere lo Statuto, ma con delle sole norme di attuazione non può essere realizzata alcuna grande zona franca nell’isola. Lo statuto sardo parla semplicemente di punti franchi, e le norme semmai riguarderebbero solamente tali punti. In secondo luogo il Codice doganale europeo vieta la creazione di ampie zone franche sul modello di quella teorizzata da Pili ed altri demagoghi, perché tale codice dice espressamente che possono essere realizzate solo zone franche delimitate. Cioè circondate da cancelli, con dei presidiati punti di accesso e di uscita.
Purtroppo in Sardegna continua ad essere diffusa la favola che possa esistere una mitica e imponente zona franca delimitata solamente dal mare. I sostenitori di questa bizzarra teoria non ci spiegano chi poi dovrebbe pagare le imposte se tutti fossero esentasse, né chi finanzierebbe i servizi in capo alla Regione, come la sanità (e giacché non la si vuole privata, qualche ente pubblico dovrà pur raccattare dei soldi da qualche parte per farla funzionare). Men che meno costoro riescono ad aprire un libro di geografia per spiegarci in cosa consisterebbe “l’ultraperifericità” della Sardegna, giacché ci troviamo al centro del Mediterraneo occidentale e non certo sull’Atlantico come altre isole europee.
Roba che a Bruxelles strapperebbe più di una risata.
Teoricamente sarebbe più semplice riscrivere lo Statuto introducendo una fiscalità asimmetrica tra regioni interne alla Sardegna, ipotesi che non dispiacerebbe a Bruxelles, ma chiaramente darebbe luogo ad una lunga ma necessaria battaglia con lo Stato per la riforma dell’architettura istituzionale italiana in chiave federale. Se non indipendentista.
Più sensate le proposte di altri presidenti, tra cui Francesco Pigliaru, che affronta il nodo delle mancate riforme spostandolo sul nostro vulnus democratico. Pigliaru infatti compie un semplice ma efficace ragionamento: se l’attuale bipolarismo, benché stabilizzi la governabilità, sigilla istituzioni inefficaci e non permette alla classe politica di sviluppare riforme strutturali condivise, deve necessariamente spingerci verso un’altra considerazione. Quale? Una prima soluzione a portata di mano potrebbe essere quella di modificare la soglia di sbarramento della legge elettorale per consentire l’accesso al Consiglio Regionale di un terzo polo. Polo che noi immaginiamo a trazione sardista, europeista e liberaldemocratica, capace di neutralizzare la polarizzazione politica e imporre delle riforme sul tavolo del dibattito. Verrebbe così anche risolta la vergognosa limitazione democratica che impedisce a diverse sensibilità politiche, ed a migliaia di sardi, di sentirsi rappresentati in Regione.
Christian Solinas, intervenuto sul lavoro della commissione speciale, ha giustamente sostenuto che bisogna andare nella direzione di sviluppare “poteri veri per affrontare la complessità del presente”.
Mentre anche Renato Soru, alla luce della propria esperienza politica, si è espresso a favore della riduzione della soglia di sbarramento per l’accesso al Consiglio Regionale.
Antonello Cabras e Angelo Rojch hanno poi sostenuto la necessità di pervenire ad un lavoro condiviso tra maggioranza e opposizione, e di riportare il tema della specialità in auge, poiché praticamente scomparso da trent’anni a questa parte, se non con occasionali e mai approfondite ipotesi di riforma dello Statuto sardo.
In conclusione, i temi di dibattito non mancano. Ma abbiamo forze politiche mature in grado di svilupparli?
La risposta la conoscete, spero tuttavia presto di darvi qualche buona notizia.
Adriano Bomboi.
Scarica questo articolo in PDF
U.R.N. Sardinnya ONLINE










