Il caso della sanità sarda e i dati CPT: spese in crescita, servizi in calo

Mentre la piazza chiede alla politica di investire più risorse nella sanità sarda, i dati dei conti pubblici territoriali, elaborati dall’Agenzia per la Coesione Territoriale, offrono un quadro che smentisce alcune credenze popolari.
A partire dal 2019, anno dell’elezione della Giunta Solinas, la Regione ha incrementato le spese per la sanità, che al 2020 hanno sfiorato i 3 miliardi e 400 milioni di euro (totale spese consolidate, sia correnti che in conto capitale). La pandemia ha inoltre dato modo alla giunta di incrementare ulteriormente l’impegno finanziario per far fronte all’emergenza dell’ultimo biennio.

Ciò nonostante, all’avvio del 2023, la qualità del servizio pubblico continua ad arrancare, con chilometriche liste di attesa ed una preoccupante penuria di personale e di servizi (in parte, in linea con quanto sta accadendo in altre Regioni).

In buona sostanza, abbiamo speso centinaia di milioni di euro in più rispetto al passato, ma il servizio non solo non è tornato al livello degli anni precedenti, in termini di prestazioni, ma è addirittura peggiorato.
Solo per citare un esempio tra tanti, è di pochi giorni fa la notizia di una degente anziana che è stata portata via dai parenti dall’ospedale SIRAI di Carbonia, in quanto, dovendo ella affrontare un’operazione urgente, non aveva a disposizione alcun anestesista in grado di svolgere tale compito.
Ma com’è possibile che nel 2023, nell’ospedale di un paese del G8, non ci sia un anestesista?
O com’è possibile che strutture complesse, come quella nuorese del San Francesco, stiano sperimentando la chiusura di specifici reparti?

A cosa si deve questa situazione?

Indubbiamente ad una serie di ragioni, alcune note, altre meno note e “inconfessabili”.

Secondo il dott. Serru, per 19 anni direttore del reparto di Oculistica all’ospedale San Francesco di Nuoro, intervistato recentemente da Franco Colomo de “L’Ortobene”, la gravità della situazione si deve ad una commistione di fattori interni ed esterni alla politica regionale.
Da un lato, deriverebbe da una maldestra concezione “economicista” delle singole aziende ospedaliere (eppure, a livello internazionale, tagliare i costi, anche nella sanità privata, non significa non avere anestesisti e altre figure chiave utili al servizio). Serru ritiene che con la necessità di effettuare dei tagli per ridurre le spese, diversi pensionamenti non sono poi stati coperti da nuove assunzioni. Tuttavia, la costante crescita della spesa testimonia che questi tagli non hanno neppure raggiunto lo scopo prefissato. Il medico si spinge oltre e dichiara: «A ciò si aggiunge il fatto che Quota 100 ha mandato i sanitari più anziani in pensione; quindi, buona parte dei primari o comunque dei medici con più esperienza non sono stati sostituiti».

Cos’è “Quota 100” e perché la politica regionale, non solo in Sardegna, parla poco di questa misura? Fu una misura di politica previdenziale per anticipare dei pensionamenti, sostenuta dalla Lega durante il governo Conte-Salvini.

I dati INPS non mentono, in tutta Italia, nel settore della sanità, al 2020, sono andate in pensione grazie a questa misura ben 7.225 persone (sia medici che personale sanitario in generale, tra amministrativi, infermieri, etc.).
Il servizio sanitario ha dunque perso una fetta consistente del proprio personale, che si trovava già in precedenza in condizioni precarie, e proprio alla vigilia di un’emergenza, quale quella da Covid, che ha danneggiato ulteriormente la capacità di assicurare celeri e continuative prestazioni ai pazienti.

Secondo Assomed, con “Quota 100” ogni anno potranno andare in pensione ben 8mila professionisti.

La politica dunque, non solo di centrodestra, tratta con estremo imbarazzo questo argomento: sia perché dovrebbe ammettere di aver avvallato una misura che sta indirettamente portando aggravamenti di salute e morte ai cittadini; sia perché si troverebbe altrimenti costretta a puntare il dito contro la propria cerchia di amici e collaboratori (vedere ex primari, medici in pensione con tessere di partito, anche di centrosinistra, e fiduciari vari).

Non sarà poi sfuggita al lettore la polemica dei mesi scorsi avvenuta nella stampa sarda tra l’allora Assessore alla Sanità Nieddu e i medici impegnati nel territorio: secondo il primo, durante la pandemia, i medici avrebbero volontariamente ridotto il numero di pazienti visitati, anche a vantaggio dei servizi di intramoenia. E lasciando inoltre sguarniti diversi piccoli paesi dalla presenza di un medico di base. Tra le righe, è passato il messaggio che la pandemia abbia offerto una scusa a tanti per lavorare meno e magari guadagnare di più.
Difficile dire se questo sospetto sia fondato o meno, di certo, i medici hanno potuto replicare rimarcando il loro costante sforzo per assicurare livelli minimi di prestazione a fronte della penuria di personale. Però anche su quest’ultimo dettaglio non sono mancate ulteriori polemiche: dal centrosinistra è stato asserito che, numero chiuso a parte delle facoltà di medicina, in realtà l’isola avrebbe un numero pro-capite sufficiente di medici per espletare il servizio, a fronte di una Regione che non si sarebbe impegnata abbastanza per garantire con efficacia le nuove assunzioni.

Il dott. Serru non si è occupato di queste polemiche, e ha puntato il dito sul modello organizzativo, che secondo la sua analisi avrebbe aggravato la situazione. Si pensi, ha dichiarato, al «responsabile facente funzioni (FF). È responsabile di tutto ciò che succede nell’unità operativa, soprattutto le disgrazie, non viene pagato come un direttore (gli ex primari), ed è ricattabile, vale a dire “se vuoi diventare direttore devi fare come voglio io e soprattutto non devi contestare”. Inoltre è costretto a sfruttare gli ex colleghi, che continuamente diminuiscono di numero e soprattutto sono sommersi dallo tsunami della burocrazia, per dimostrare di essere all’altezza delle aspettative dell’azienda».  Così si creano «ambienti di lavoro invivibili con perdita del bene più prezioso, ossia lo spirito di squadra». Il direttore facente funzioni viene infine «costretto, per non correre il rischio di denunce di risarcimento, a trattare patologie con più possibilità di successo prognostico, ed evitare quelle più complicate. In più il direttore non può fare richieste strumentali per la propria unità in quanto ciò provoca maggiori spese nel “budget”». Inoltre «Se il reparto, per mancanza di mezzi non è più efficiente e ti mettono sotto accusa, ad esempio la stampa o i media in generale, non puoi rispondere “non è colpa mia, non mi hanno dato i mezzi” perché stai denigrando l’Azienda e vieni rimosso». Lo stesso contratto vieta di parlare dell’Azienda con la stampa. E nel frattempo i reparti chiudono.

Le spese invece, come abbiamo visto, continuano a salire.

Perché?

Chiedetelo ai consiglieri regionali che presero parte alla commissione di inchiesta sui costi della sanità sarda. Non arrivarono a capo di nulla, ma appaiono curiosamente in piazza o sulla stampa, al fianco dei cittadini ignari di tutto, a chiedere che la Regione “aumenti le risorse”.

In conclusione, la nostra sanità non è stata rovinata dalla mancanza di soldi, e neppure esclusivamente dal Covid, men che meno da una fantomatica “privatizzazione dei servizi”, è stata rovinata principalmente dalla gestione politica, sia a livello governativo (con misure populistiche come “Quota 100”), e sia a livello locale (con misure clientelari e allo stesso tempo dedite a contenere i costi sociali delle prime).

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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